posto_occupato-6

Violenza sulle donne, l’importanza del linguaggio

Può sembrare paradossale, ma la discussione costante sul tema del “femminicidio” rischia di lasciare in ombra il fenomeno della violenza domestica perché il cicaleggio mediatico sugli omicidi femminili crea disinformazione e alimenta falsi stereotipi sulla violenza. 

Chiunque, uomo o donna, che senta di un caso efferato di cronaca lo condanna e ne rimane indignato. Eppure fra quelle donne e uomini ce n’è uno che fra due giorni diventerà un assassino e una che sarà uccisa. Ma se tutti condanniamo la violenza come mai non riusciamo ad interromperla? 

Perché continuiamo a parlare del problema in modo che ne oscura le reali caratteristiche. Invece di parlare delle storie di normalità e della quotidianità che attraversano le esperienze di tutti/e noi, guardiamo al “Mostro assassino” ed alla “Vittima sacrificale”. La retorica dei buoni sentimenti ed il moralismo superficiale prevale sulla riflessione che, secondi i dati ISTAT, il 17% degli uomini e delle donne vivono con la violenza. Quasi tre famiglie su dieci combattono silenziose battaglie quotidiane per contrastare la violenza. Le donne che la subiscono, i bambini, testimoni silenziosi, ma anche gli uomini che la agiscono, che sono qualche volta uomini che cercano di gestire il proprio malessere, ingoiando bocconi che sentono sempre più amari e che finiscono per sputare in forma violenta. Anche loro combattono solitarie lotte interiori, che perdono regolarmente, aumentando il loro senso di fallimento, per resistere alle “provocazioni” e non trovarsi di nuovo in situazioni di violenza.

Ma chi sono gli uomini che agiscono violenza e cosa raccontano dei loro vissuti? Sono uomini che raccontano di una “loro” sofferenza e che si percepiscono spesso come “vittime” di atteggiamenti vissuti come deliberatamente ostili (“provocazioni”). Uno degli elementi alla base di questo atteggiamento è una socializzazione maschile a non riconoscere le emozioni ed a rispondere alle emozioni come la paura, la vulnerabilità, l’incertezza con la rabbia e l’aggressività. Gli uomini sono socializzati fin da piccoli a non mostrare i propri sentimenti soprattutto se rivelano fragilità: “sii forte, non piangere” si ripete loro fin dall’infanzia! E questi bambini, fragili e vulnerabili, imparano a distaccarsi da tali sentimenti e a reagire a queste sensazioni con ciò che invece viene incoraggiata: la rabbia. Essere un ragazzo/uomo forte, che non si fa mettere i piedi in testa, che risponde con determinazione/aggressività è un tratto che viene valorizzato nell’ambiente dei coetanei e talvolta familiare. La rabbia diventa quindi la risposta socialmente accettabile ai sentimenti di vulnerabilità e fragilità. Questo, combinato ad un modello sociale che incoraggia la dominanza, insegna la superiorità maschile ed un senso di aver diritto all’accudimento e cura da parte delle donne porta ad una miscela esplosiva che legittimerà in futuro l’uso della violenza. 

Occorre quindi, per creare cambiamento, insegnare agli uomini un linguaggio per affrontare la sofferenza, riconoscere la fragilità e la vulnerabilità come aspetti imprescindibili della crescita e della vita, snidare le idee di “vittimismo maschile” spesso frutto di una delega del proprio benessere emotivo a figure femminili ed incoraggiare una assunzione di responsabilità rispetto alla propria cura di sé emotiva e fisica. Occorre trovare un linguaggio che smascheri gli stereotipi sulla mascolinità e femminilità e restituisca uno scenario meno stereotipato e più autentico. 

Allora forse la strada è cominciare a parlare alle persone con un linguaggio che avvicini la violenza. Significa cominciare a domandarci se il nostro linguaggio nelle nostre relazioni affettive è rispettoso. Se, senza neanche pensarci, svalorizziamo il nostro compagno/a con malcelata supponenza. Se dietro l’idea che sia “giusto” non stiamo imponendo all’altro la nostra visione del mondo, piuttosto che riconoscere la differenza e cercare strade diverse per aprire alle mediazioni. Se cediamo o spingiamo ad avere rapporti sessuali che non nascono dalla reciprocità del desiderio. 

Soprattutto dobbiamo cercare un linguaggio che espliciti il problema della violenza maschile contro le donne come una questione degli uomini usando un linguaggio che nomini e non minimizzi tutte le forme di violenza – non solo quella fisica – ma anche quella psicologica, economica, sessuale ed emotiva. Solo attraverso l’uso di un linguaggio diverso sulla violenza che ci permetta di riconoscerlo nella nostra quotidianità possiamo sperare in un cambiamento culturale e sociale.