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L’Europa che permise l’aggressione all’universalismo ebraico

Con una regolarità allarmante riemergono, in varie parti del mondo, casi più o meno violenti di antisemitismo. O forse sarebbe meglio dire: di antiebraismo, perché è contro gli ebrei che si manifesta l’odio o il rancore. É una storia che arriva da lontano, su cui le Chiese cristiane hanno responsabilità non da poco. Tanto più questa risorgenza si rivela un dato preoccupante, anche perché su questo tema ormai da parecchi anni le chiese sono intervenute riconoscendo i guasti causati nel passato. In questa linea, per tentare di comprendere nei giusti termini il rapporto fra il cristianesimo e l’ebraismo, si pone anche il ponderoso libro del professore svedese Anders Gerdmar*. Come indicato dal sottotitolo, il nostro autore ripercorre la teologia biblica protestante tedesca fra il 1750 e il 1950, per verificare se e come gli autori presi in considerazione abbiano condizionato l’atteggiamento della gente nei riguardi degli ebrei. Va ricordato che tra la metà del 700 e per tutto l’800, quando nasceva e si imponeva il sentimento nazionale di “germanità”, la posizione degli ebrei nella società e nella teologia tedesca diventava una problematica scottante. A ciò si aggiunga che è in questo stesso periodo che nascono l’idea di razza e di razzismo “scientifico”, così come lo concepiamo oggi. 

Il nostro autore, con un lavoro estremamente puntuale, analizza a fondo l’opera di una quindicina di autori tedeschi che hanno segnato profondamente gli studi sia del Primo sia del Secondo Testamento nel corso di questi due secoli, per verificare come ognuno di essi si ponga nei confronti dell’ebraismo. Si nota che in tutti questi autori, in modo ora più ora meno marcato, affiora un giudizio pesantemente negativo nei confronti dell’ebraismo del tempo di Gesù. Essi affermano che, se al tempo dei profeti era presente una forte carica vitale, al tempo della nascita della chiesa cristiana il giudaismo rabbinico appariva sterile e pesantemente legalistico, tale per cui il messaggio cristiano si poneva in assoluta antitesi con quello ebraico.

Ma, e questo è a mio avviso l’aspetto più preoccupante, questo giudizio che potremmo definire storico o teologico, si riverbera anche nei giudizi espressi nei confronti dell’ebraismo contemporaneo. «Il giudaismo è una potenza mondiale e un corpo estraneo nella società, esclusivista […] gli ebrei stessi sarebbero la causa dell’odio razziale, poiché odiano tutti e sono odiati da tutti»: con simili termini si esprimeva Wilhelm Bousset all’inizio del ‘900 (p. 185). Per cui, anche laddove si invocava tolleranza nei confronti degli ebrei, con difficoltà si accettava una loro piena integrazione nella società tedesca.

L’esempio più eclatante è però dato dall’esegeta Gerhard Kittel (1888-1948), al quale Gerdmar dedica un centinaio di pagine. Figlio di un professore di Antico Testamento, Kittel era un professore quarantenne, già noto e apprezzato come uno dei più profondi conoscitori dell’ebraismo quando nel 1933 Hitler prese il potere. Egli si iscrisse al partito nazionalsocialista e, come molti protestanti del tempo, dimostrò subito di condividerne la filosofia e gli intenti. Scrisse anche un libretto sulla Questione ebraica ** che si attirò la risposta del filosofo ebreo Martin Buber. Ciò che colpisce in questo scritto è il fatto che di biblico non c’è praticamente nulla e il discorso teologico è marginale. Il pensiero centrale sta nell’idea del popolo, della razza e del sangue: «ora in mezzo a noi [tedeschi] è scaturito un nuovo movimento [il nazismo], pieno di vita, per il quale l’ideale non si chiama cosmopolitismo e cultura dell’umanità, bensì cultura legata al popolo e radicata nel popolo […] curandosi di ciò che è radicato e autentico, di ciò che è spuntato dal suolo patrio di terra e sangue».

È chiaro che in questo contesto non c’è spazio per la realtà universale dell’ebraismo e il popolo ebraico (perché si parla di popoli e non di persone singole) deve essere considerato un elemento estraneo e quindi marginalizzato. No dunque a qualsiasi forma di integrazione, no all’accesso ad alcune professioni come il magistrato o l’insegnante perché un tedesco non può essere giudicato o istruito da un estraneo. In pratica, la proposta di Kittel è che si ripristini per gli ebrei la condizione di “popolo forestiero”, con tutte le conseguenze che questo può portare. E se un ebreo si converte e diventa cristiano? Sia accolto come un fratello, dice Kittel, ma laddove possibile si costituiscano comunità apposite, con pastori anch’essi provenienti dall’ebraismo. Questo è il tono del suo pamphlet. Dopo la guerra, Kittel sarà sottoposto a restrizioni nel quadro del processo di denazificazione che vide coinvolti anche altri intellettuali. In una memoria redatta per difendersi, egli affermò che lo scopo del suo scritto era quello di proteggere gli ebrei dagli eccessi violenti delle campagne antisemite in atto nel suo Paese. Cosa che evidentemente non fu creduta.

Il prof. Gerdmar all’inizio della sua fatica afferma di voler verificare come la teologia e l’esegesi in particolare abbiano contribuito a determinare la condizione degli ebrei in Germania. Alla fine della lettura, ciò che colpisce in questi autori è il fatto che, più che condizionare, furono essi stessi condizionati dalle idee circolanti al loro tempo che assunsero, ahimè, con poco spirito critico. Come ebbe a riconoscere l’esegeta statunitense Ch. H. Charlesworth: «Noi studiosi siamo naturalmente esseri umani e non soltanto facciamo degli errori, ma siamo spesso inconsapevoli di quanto possiamo essere influenzati dallo spirito del nostro tempo». É esattamente ciò che è successo sul tema della “questione ebraica”.

* G. Anders, Bibbia e antisemitismo teologico. L’esegesi biblica tedesca e gli ebrei da Herder e Semler a Kittel e Bultmann, Paideia 2020, pp. 643 euro 79,00.

** I testi di questo dibattito sono stati tradotti in italiani a cura di G. Bonola in G. Kittel, M. Buber,

La questione ebraica. I testi integrali di una polemica pubblica, EDB, Bologna 2014.