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Il lato umano nel mondo che dipende dal web

Le chiese protestanti nel nostro paese hanno messo in opera varie iniziative online per svolgere, per quanto possibile, culti, studi biblici e catechesi a distanza, nel rispetto delle decisioni governative. Ma hanno anche iniziato a riflettere e approfondire i ragionamenti su che cosa significhi, oggi ma anche domani, essere chiesa, e sui vari modi di “vivere la chiesa”. Dopo gli interventi di Winfrid Pfannkuche, e di Roberto Davide Papini, pubblichiamo un terzo articolo sul ruolo delle tecnologie nella vita delle chiese.

«Quando preghi, entra nella tua cameretta e serratone l’uscio fa la tua orazione». Il versetto di Matteo 6 mi giunge come una benedizione in questo tempo di ebbrezza di parole e immagini. L’impossibilità di ritrovarsi, anche nelle chiese, ci ha costretti ad appigliarci a ogni forma di tecnologia, a utilizzare nuovi strumenti per continuare a essere chiesa. Una Babele di suoni e colori mista a eccitazione ed euforia che capiremo domani se ci avrà fatto bene o meno.

Certo abbiamo messo in atto una bella sperimentazione creativa che può essere un valore aggiunto se sapremo non considerarlo un modello imprescindibile. Perché è facile infatuarsi delle novità, soprattutto quando le avevamo poco considerate prima. Una chiesa come la nostra, che ha sempre corso il rischio di essere relegata nella sfera dell’invisibilità, ora più che mai pare appigliarsi ai mezzi che vengono dal mondo digitale con grande, forse eccessiva fiducia, come un naufrago si aggrappa a una zattera in un mare in tempesta. Che al momento non si possa fare diversamente mi è chiaro: i culti video, le meditazioni su WhatsApp e quant’altro sono una risorsa importante e lo rimarranno anche dopo. Ma queste nuove tecnologie, se da un lato ci forniscono un supporto prezioso, dall’altro solleticano il nostro narcisismo, ci inducono a credere che per contare qualcosa si debba per forza essere visti, ci fanno scambiare il nuovo per ciò che poi così nuovo non è, in una corsa che non sembra finire mai.

Forse oggi, più di prima, dovremmo fermarci, ritrovare il senso del limite, interrogare la nostra comune condizione di fragilità e analizzare quello che il virus ha scoperchiato, anche nelle nostre chiese. Oggi che il re è nudo la chiesa deve approfittarne per tornare a comprendere se stessa, soppesando le parole e trovandone di qualità (se quelle pronunciate su un pulpito possono essere a volte poco incisive, figurarsi sul web dove siamo ancora più esposti e dove il linguaggio non è quello a cui siamo abituati). Per fare questo dobbiamo farci meno centro e più periferia, coltivando il silenzio e i gesti meno appariscenti ma capaci di fare davvero la differenza. Penso alle lunghe telefonate dei pastori con i loro membri di chiesa, a chi accenna a una visita arrestandosi al citofono, ai culti domestici. Poche cose che oggi sono grandi e andrebbero valorizzate perché rivelano cura e attenzione verso la singolarità di ognuno di noi. Ci dicono anzi una cosa fondamentale: che ciascuno di noi è unico e non intercambiabile e che il suo corpo conta, con i suoi gesti, il suo odore.

Proprio perché il web è impalpabile bisogna favorire l’espressione del lato umano. L’intimità del rapporto con Dio e con gli altri fratelli e sorelle è un bene che dobbiamo continuare a custodire preziosamente, per ritrovarci più forti dopo questo inverno sanitario. E trovare una strada per la chiesa di domani, che potrà essere anche una chiesa di follower ma non potrà non essere soprattutto una chiesa di fedeli in carne e ossa, sentimenti e corpi, dove non si rimane su un piano di orizzontalità ma si coltiva la dimensione verticale del rapporto con Dio e dove si continua a indagare la vita in profondità. In altre parole dove è possibile, oltre all’intensità, nutrire anche la fedeltà a un Patto che non viene meno.