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Fototessere 3: il mio modo di essere cristiano

Prosegue la serie di incontri dialogati che Paolo Ricca realizza per Riforma e che ha preso il via a inizio luglio con Maria Paola Rimoldi ed è proseguito con Anna Paola Carbonatto. Verranno coinvolti, di volta in volta, uomini e donne che hanno dei ruoli conosciuti all’interno delle chiese evangeliche in Italia o nell’ambito ecumenico, ma anche persone che, pur non avendo incarichi conosciuti ai più, portano con sé un’esperienza di fede significativa per tutti e tutte noi. Oggi è il turno di Matteo Ferrari, monaco benedettino a Camaldoli

Buona lettura.

Camaldoli è una località dell’Appennino Casentinese in prov. di Arezzo: a ca. 800 m., nel cuore di una vasta foresta, sorge imponente l’omonimo monastero benedettino, fondato da Romualdo poco più di mille anni fa e da allora sede centrale dell’Ordine dei Camaldolesi. Oggi, oltre che “casa  madre” dell’Ordine, è un centro vivo di animazione e formazione cristiana attraverso convegni, colloqui, seminari, con forte impronta biblica ed ecumenica. Tra questi spicca per importanza l’annuale Colloquio ebraico-cristiano di dicembre. A Camaldoli opera Matteo Ferrari, carissimo amico da molti anni,  instancabile organizzatore di incontri, autore di diversi libri. Nato a Parma nel 1974, ha studiato Liturgia a Padova e Sacra Scrittura a  Roma, Firenze e Gerusalemme. Nel monastero è responsabile dell’accoglienza ed è vicedirettore del polo accademico dell’Istituto Superiore di Scienze religiose della Toscana “S. Caterina da Siena”.

– La sociologa inglese Grace Davie fece un’inchiesta sulla religiosità nel Regno Unito dopo il 1945 che recava come sottotitolo “credere senza appartenere”. Questa formula fotografa anche oggi la situazione di molti europei che coltivano ancora una fede in Dio, ma lontano dalle Chiese. Lei, come monaco, vive una doppia appartenenza: alla sua Chiesa e alla Comunità monastica di Camaldoli. E allora le chiedo: è possibile, secondo lei, essere “cristiani senza Chiesa”?

«“Essere cristiani senza Chiesa” ordinariamente no. Il Nuovo Testamento unanimemente afferma che essere cristiani è una questione di comunità. Anche il Primo Testamento d’altra parte e la tradizione ebraica attestano che Dio entra in relazione con un popolo. Certamente c’è una relazione personale con Dio, ma essa, per essere autentica, si colloca in una comunità e in un discernimento comunitario. Non è possibile però “porre confini a Dio”: nel Nuovo Testamento abbiamo molti esempi di percorsi “inediti”, “straordinari”. Gesù stesso – pensiamo al centurione (Mt 8, 5-13) o alla donna cananea (Mt 15, 21-28) – ha dovuto scoprire che i confini del regno di Dio non coincidono con i nostri confini religiosi. Allora direi che certamente la via “normale” della vita cristiana è l’appartenenza a una Chiesa, a una comunità di credenti, ma non dobbiamo dimenticare la fantasia di Dio».

– Si possono però anche invertire i termini della formula e descrivere la situazione religiosa di buona parte d’Europa così: “appartenenza senza fede”. Che cosa pensa lei del cosiddetto “cristianesimo culturale?”

«È un problema serio con molte sfaccettature e tante implicazioni “pastorali”. In Italia c’è il fenomeno del “cristianesimo/cattolicesimo devoto”, legato unicamente a questioni di identità e di tradizione che finisce per schierarsi su posizioni di stampo conservatore che spesso hanno poco a che fare con il messaggio evangelico. Da queste posizioni le comunità cristiane devono guardarsi. C’è il rischio cercare appoggi per avere privilegi di vario tipo. Ma questo non ha nulla a che fare con l’evangelo. E tuttavia c’è anche una appartenenza per tradizione che può essere letta come opportunità per annunciare il Vangelo oggi».

– Lei ha l’impressione di essere diventato cristiano diventando monaco o “le due vocazioni” sono state nettamente distinte?

«Quando ho deciso di diventare monaco mi ha attratto una cosa in particolare: il monachesimo si fonda unicamente sul battesimo. Nulla di più. Certo è una scelta particolare nella comunità cristiana. Ma è un segno che vuole sottolineare innanzitutto che per essere cristiani non occorre avere missioni particolari, ma semplicemente cercare di seguire Gesù. Il monachesimo non pretende di avere l’esclusiva su nulla: vuole solamente sottolineare in modo radicale ciò che appartiene a tutti, sottolineando semplicemente quegli elementi – vita comune, preghiera, ascolto della Parola, accoglienza, conversione… – appartengono alla vita di ogni cristiano. La scelta monastica è stata per me il mio modo di essere cristiano».

– Ci sono molti tipi di monachesimo: perché ha scelto quello benedettino e, al suo interno, quello camaldolese?

«Ciò che mi ha spinto verso il monachesimo benedettino è stato il primo verbo presente nella Regola: “ascolta!”. Nel mio cammino di giovane cristiano ho scoperto la centralità per la mia vita della Parola di Dio da cercare nelle Scritture. La scelta di Camaldoli è legata alla concreta importanza data alla lectio divina nella comunità. Poi ci sono stati altri due elementi: il radicamento in una tradizione antica da una parte, l’apertura alle “novità” del Concilio Vaticano II dall’altra. In modo particolare l’importanza del dialogo con le altre Chiese cristiane, con l’ebraismo e con la cultura contemporanea».

– Ci descriva la giornata tipica di un monaco, oggi.

«La vita del monaco è fatta degli “ingredienti” della vita di ogni uomo e donna. Innanzitutto il lavoro. Ogni comunità monastica vive del proprio lavoro, condividendo la vita di tutti. Mi sembra un aspetto molto bello. Il lavoro ci ricorda la solidarietà con tutti e soprattutto che “non siamo migliori”, come ha spesso ricordato Enzo Bianchi, fondatore della Comunità di Bose. Gran parte della giornata è dedicata alle varie occupazioni che ogni monaco ha in comunità. Poi c’è la preghiera, che scandisce la giornata, fondata principalmente sulla recita dei Salmi. Poi ci sono i momenti comuni, di fraternità e di condivisione».

– È nota la formula benedettina Ora et labora. Qual è il suo lavoro nel monastero?

«Io mi occupo di diverse cose. In comunità innanzitutto mi occupo dell’accoglienza degli ospiti e dell’organizzazione delle proposte spirituali e culturali che la comunità offre ogni anno. Sono impegnato nell’insegnamento nell’Istituto di Scienze religiose, come docente di Sacra Scrittura e come vicedirettore. Ho anche diversi incarichi nella nostra Diocesi di Arezzo. Il monachesimo, sebbene con ritmi e forme di vita differenti, ha sempre cercato di dare il suo contributo anche alla Chiesa locale».

– È ottimista riguardo al futuro della fede cristiana?

«Certo che sono ottimista. Innanzitutto, c’è una risposta di fede: la fede non è nelle nostre mani, ma in quelle di Dio. In secondo luogo, una purificazione da tante sovrastrutture non può che essere un “bene” per le Chiese: un ritorno al Vangelo e alla Parola del Signore».

– Qual è, oggi, la funzione del monastero?

«La funzione del Monastero rimane quella di testimoniare l’essenziale per la vita di ogni battezzato. Siamo un “ricordo” per tutti che non dobbiamo cercare vie “mondane” di consenso, ma a vivere la “perseveranza” dell’ascolto e della comunione – compagni di viaggio di ogni uomo e donna del nostro tempo – per lasciare a Dio lo spazio di compiere la sua opera».