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Beirut, un mese dopo

È trascorso un mese esatto dalla doppia esplosione nel porto di Beirut e dalle impressionanti immagini che fecero rapidamente il giro del mondo. Da allora, sono state moltissime le dichiarazioni di supporto e solidarietà da parte di tutta la comunità internazionale e le promesse di impegno del governo. Eppure, come spesso succede, non sempre le intenzioni si traducono in azioni.

Qualche cifra, prima di tutto. Un mese, 200 morti, 7.000 feriti, 300.000 persone senza una casa e un numero che si spera di aggiornare presto: quello dei dispersi. Durante i lavori tra le macerie nel quartiere di Mar Mikhaël, infatti, è stato individuato un debole respiro, percepito dal cane di una squadra di soccorritori cileni, che ha fatto riattivare le squadre di soccorritori la cui strumentazione avrebbe confermato la presenza del segnale. Due giorni dopo l’esplosione, una squadra di soccorso francese e volontari della protezione civile libanese avevano già esaminato le macerie dello stesso edificio senza trovare nulla, ma oggi si è riaccesa la speranza di trovare ancora una persona in vita. Da un punto di vista simbolico, sarebbe molto.

Al di là di questa sorpresa, ci sono alcune certezze: è ancora troppo presto per comprendere realmente la portata dei danni, anche di identità, così come i tempi e i costi di una ricostruzione che molti abitanti temono possa cancellare le tracce della storia contemporanea della città.

Nel frattempo, sono moltissimi i residenti che non sono ancora rientrati a casa.

Mar Mikhaël è uno dei quartieri più vicini al porto e per decenni è stato il quartiere degli artisti, con il suo stile bohemien e la sua vita notturna, soltanto scalfita negli ultimi anni dalla rinascita del quartiere meridionale di Badaro. Oggi la distruzione è quasi completa, e qui, come nell’altro famoso quartiere di Jeïtaoui, il grande assente è lo Stato. Al suo posto ci sono decine di organizzazioni non governative locali e internazionali, ma senza una qualunque forma di coordinamento la risposta è disordinata, o almeno così viene percepita dagli abitanti. Secondo alcuni di loro, paradossalmente, la presenza delle ONG sul terreno sollevi di fatto le autorità dalle loro responsabilità, contribuendo a complicare ulteriormente il problema di uno Stato troppo impegnato in grandi dichiarazioni e incapace di arrivare sui territori.

Alcuni residenti hanno cominciato a muoversi per riparare le proprie case da soli, ma la burocrazia e le scarse condizioni di sicurezza rendono l’operazione davvero complicata. Molti altri, invece, non possono muoversi in nessuna direzione, perché le esplosioni hanno colpito il Paese durante la peggior crisi economica degli ultimi decenni. Con il cambio tra il dollaro e la lira libanese che cresce fuori controllo, chi non ha accesso a valuta estera non si può permettere di condurre interventi di restauro. Mentre ufficialmente un dollaro viene scambiato a 1.500 LL, il cambio reale è almeno a 8.000 LL, ma soprattutto è così volatile da rendere impossibile fare previsioni.

In questo contesto, la politica promette cambiamenti, ma i segnali che vengono inviati non vanno certamente in quella direzione.

Le dimissioni di Hassan Diab, Primo Ministro dal gennaio 2020, hanno portato a settimane di vuoto e alla nomina di Mustafa Adib, ambasciatore libanese in Germania, scelto con il supporto europeo. Ora si aspetta la formazione del nuovo governo, mentre l’ex premier accusa il “sistema corrotto” di avergli impedito di riformare il Paese come invece chiedevano i manifestanti nell’ottobre 2019. L’unico aspetto che non viene mai messo davvero in dubbio, nonostante le dichiarazioni pubbliche, è proprio il sistema politico, basato sull’appartenenza più che sui programmi e in mano ad alcune famiglie politiche che hanno una concezione del potere quasi dinastica. A rendere tutto ancora più complicato, la difficile situazione sanitaria e la crisi da Covid-19, che ha imposto due lockdown soltanto nell’ultimo mese in una città in cui mancano sia il lavoro sia, soprattutto, le prospettive.

L’esplosione ha trasformato, o potrebbe farlo, la geografia della capitale. E la geografia è politica, non è una novità. È un aspetto su cui si insiste moltissimo ogni volta che si parla del Libano contemporaneo, anche se in realtà si ritrova lungo tutta la sua storia e anche in quasi ogni altra grande città del mondo. Basti pensare a New York, con la sua Chinatown, la sua Little Italy e la comunità ebraica di Brooklyn, o all’evoluzione della demografia e del voto nelle città industriali italiane durante il boom economico del secondo Dopoguerra. Tuttavia, a Beirut la suddivisione secondo linee di appartenenza religiosa si è rafforzato a partire dalla guerra civile (1975-1990), per poi essere addirittura ribadita per legge al termine del conflitto. Oggi come allora, il sistema su cui si regge la pace è allo stesso tempo l’ostacolo della vita dei libanesi e l’ancora a cui si aggrappa un sistema politico probabilmente corrotto e sicuramente incapace.

Nel frattempo, il centro della scena è stato preso da due attori molto diversi ma in costante dialogo: il presidente francese Emmanuel Macron e il partito sciita Hezbollah, oggi maggioranza relativa nel Paese.

Parigi, l’ex padrone coloniale, ha promesso sin da subito un grande piano di aiuti e un impetuoso cambiamento. Lunedì 31 agosto, per la seconda volta nell’ultimo mese, il presidente francese Macron è arrivato in visita ufficiale, questa volta per celebrare il centesimo anniversario della formazione dello Stato libanese come protettorato francese.

Macron ha trovato grande disponibilità al dialogo da parte di tutti i partiti e le coalizioni del Paese, probabilmente più interessati agli aiuti economici che alla richiesta di riforme, al punto che anche Hezbollah ha aderito alla nomina di Adib come nuovo premier.

Tuttavia, chi non ha apprezzato per nulla la visita del presidente francese è sicuramente la fascia più giovane della popolazione, la stessa scesa in piazza nell’ottobre 2019 per chiedere il superamento del sistema confessionale e una maggiore indipendenza del Libano dalle interferenze esterne, che siano l’Iran, il Golfo o la Francia. Secondo i manifestanti, Adib è un premier “coloniale” e “fantoccio”, che mette quindi insieme i difetti della vecchia politica e quelli del controllo dall’alto tipico dell’influenza francese.

A rendere ancora più complicato il quadro, sono poi i dissidi tra la Francia e un altro attore straniero con cui in Medio oriente è inevitabile fare i conti: gli Stati Uniti.

Sin dai primi giorni dopo l’esplosione, infatti, Macron aveva ribadito che, pur avendo la necessità di garanzie dalla componente militare del movimento, non era possibile escludere Hezbollah dal processo politico, perché questo avrebbe significato screditare l’intero sistema elettorale. Proprio per questo, Parigi chiede al partito di Nasrallah un segnale di distensione e un parziale disarmo del sud del Libano, mentre per Washington l’unica possibilità è la deposizione totale delle armi. Il rischio è che su questo punto si riproponga lo schema in atto sull’Iran, con gli europei a cercare di portare avanti un dialogo da una posizione di debolezza e gli Stati Uniti sempre pronti a far saltare il banco anche senza effettive violazioni.

A un mese dalle esplosioni che hanno distrutto Beirut, una spaccatura come questa è qualcosa che il Libano non si può sicuramente permettere.