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L’Europa verso un nuovo patto sulle migrazioni

«La Commissione presenterà un nuovo patto sulla migrazione». Con queste parole, pronunciate durante il discorso sullo Stato dell’Unione di mercoledì al Parlamento europeo, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha rilanciato una questione tornata al centro del dibattito nelle ultime settimane, con l’incendio nel campo profughi di Moria, sull’isola greca di Lesbo.

L’estrema carenza di canali legali per le migrazioni verso l’Europa da Paesi in via di sviluppo ha reso negli ultimi decenni sempre più frequente il ricorso alla richiesta di protezione internazionale, anche alla luce di conflitti e crisi di lunga durata nei Paesi africani e dell’Asia occidentale e centrale.

Tra i nodi principali delle politiche migratorie europee, quindi, si colloca senza dubbio il regolamento di Dublino, che trattiene nei Paesi di primo ingresso (su tutti Italia, Grecia e Spagna) migliaia di persone che arrivano via mare.

Gianfranco Schiavone, giurista e vicepresidente di ASGI, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, spiega che «il regolamento stabilisce i criteri per individuare il Paese competente a esaminare la domanda, e quindi affronta una questione dirimente. È un grande problema perché è basato su un approccio anacronistico, già molto datato e poco lungimirante al momento della nascita, che assegna al Paese di primo arrivo un ruolo spropositato. Tutte le volte che abbiamo un ingresso irregolare, ed è del tutto evidente che il richiedente asilo nella maggior parte dei casi fugge senza una preventiva autorizzazione all’ingresso nel Paese in cui si sta recando, è competente a esaminare la domanda il primo Paese nel quale la persona arriva. Si dà quindi un ruolo spropositato, sulla carta, ai Paesi che hanno frontiere esterne dell’Unione europea, come l’Italia».           

I dettagli della proposta non sono ancora noti, ma Von der Leyen ha spiegato che la Commissione presenterà il patto il 23 settembre, un giorno prima del Consiglio Europeo, la riunione dei capi di stato e di governo dell’Unione.

L’idea di riformare il Regolamento di Dublino non è nuova: l’ultimo tentativo era stato portato avanti durante la scorsa legislatura europea. Alla fine del 2017, infatti, il Parlamento europeo aveva approvato una riforma che poi venne fermata nei passaggi successivi, di fronte alla Commissione e al Consiglio. Ma che cosa rimane di quella riforma? Sarà quello il punto da cui si ripartirà?

«Temo che il punto di partenza sarà molto diverso, anche se oggi andrebbe ripreso quell’approccio. Il tentativo di allora si basava sulla necessità di cambiare completamente sistema. Il regolamento non funzionava da moltissimi anni, anche perché se funzionasse veramente imploderebbe da solo, in quanto le persone appunto rimarrebbero tutte nei primi Paesi d’ingresso. È soltanto il fatto che le persone se ne vadano comunque a far sì che abbia retto, ma questo significa che il regolamento è disapplicato. Comunque la si guardi, il regolamento non funziona».

Quali sono i pilastri su cui si regge oggi il Regolamento?

«Il primo criterio fondamentale, che tutti conoscono perché è di questo che le revisioni parlano, è il principio della ripartizione, cioè in qualche modo obbligare tutti i paesi dell’Unione europea a prendere delle quote di richiedenti asilo. Nel 2017, la discussione giunse a una conclusione molto importante, e cioè che il criterio del primo Paese di arrivo veniva completamente abolito e sostituito con un principio di distribuzione obbligatoria per quote sulla base di due parametri, cioè il PIL e la popolazione. Oggi questo criterio viene in parte riproposto, infatti si è data una grande enfasi nella comunicazione pubblica appunto all’idea della ripartizione, ma nessuno fa osservare che in realtà ci sarebbe un arretramento rispetto all’idea del 2017, perché la redistribuzione sarebbe possibile solo in caso di “particolare pressione” su un determinato Paese. Alla fine, quindi, verrebbe comunque salvato il principio del Paese di primo ingresso. Come se non bastasse, si potrà anche evitare questa obbligatorietà pagando, una scelta fatta per convincere i Paesi più riottosi, come quelli del gruppo di Visegrad. Si prevede che i Paesi, invece di accogliere, possano contribuire all’accoglienza in altri Paesi, quindi rendendo la ripartizione molto parziale. Il secondo aspetto centrale è che sparirebbe completamente all’orizzonte il secondo pilastro della riforma del 2017, cioè il fatto che si teneva conto dei legami significativi delle persone. Il fatto di avere familiari in altri paesi, avere dei parenti, aver vissuto in altri Paesi, conoscere la lingua, aver avuto appunto precedenti soggiorni per lavoro in un Paese, rappresentavano elementi che nell’idea riformatrice del 2017 entravano giuridicamente nella valutazione della domanda. La commissione fu molto ostile a quell’approccio, il Parlamento lo votò lo stesso, e sono sicuro che questo tipo di approccio così lungimirante, che tiene conto del fatto che le persone non sono degli oggetti ma secondo cui si debba favorire anche il progetto migratorio della persona, sarà completamente cancellato».

Parallelamente alle riflessioni sul garantire il diritto d’asilo, Ursula von der Leyen ha parlato anche del rafforzamento dei rimpatri e di quello dei confini esterni. Come stanno insieme questi tre concetti-chiave?

«Non stanno insieme. Il principale approccio di questo patto, che non sarà una norma ma solo un quadro generale in cui poi si inseriranno le riforme delle singole disposizioni (Dublino, accoglienza, procedure) e che andrà poi declinato in singole normative, non è un approccio di apertura, ma al contrario di massima chiusura. Ogni sforzo viene fatto già oggi, e sembra che si voglia farlo ancora di più, per impedire l’accesso al territorio europeo, per pagare Paesi terzi affinché le persone vengano trattenute, affinché le domande di asilo vengano esaminate da altri, perché si paghino altri Paesi perché “si tengano i migranti”. È lo stesso tipo di approccio che ha generato immense tragedie in questi anni. Addiritturam questo approccio arriva dentro l’Europa, e qui voglio dire una cosa che è molto importante per l’Italia, cioè dovrebbe essere prevista una sorta di “procedura di ammissibilità” della domanda, una specie di pre-esame mascherato quando ormai la persona è arrivata appunto in Europa nel Paese di primo ingresso. L’Italia lo sarà molto frequentemente, poi nel caso, la ripartizione si effettuerà, e tra l’altro non sempre, solo se questa procedura di ammissibilità ha avuto buon esito. Se invece non ha avuto buon esito, cioè sostanzialmente si ritiene che la persona abbia scarse probabilità che la domanda venga accolta, allora non sarà mai inviata in altri Paesi ma rimarrà in quello di primo ingresso, al quale toccherà fare, magari a pagamento, il lavoro sporco di tenersele o rimpatriarle. È una visione, anche nei confronti di Paesi come il nostro, che non mostra grande considerazione. Stiamo parlando di una esternalizzazione delle frontiere in Europa all’interno dell’Europa stessa».