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Schiavo e padrone, ipotesi di riconciliazione

La Lettera a Filemone, come è noto, è il più breve scritto di Paolo. Si tratta di un biglietto con cui l’apostolo rinvia uno schiavo al suo padrone. Per spiegare la situazione, una tradizione ampiamente accettata afferma che Onesimo era fuggito dal suo padrone, il cristiano Filemone. Nella fuga si era rifugiato presso Paolo e, convertitosi, era stato battezzato. Ma ora deve tornare. Però, scrive Paolo: «non più come schiavo, ma molto più che schiavo, come un fratello caro specialmente a me, ma ora molto più a te, sia sul piano umano sia nel Signore!» (vers. 16).

Tutto qui? Tutto spiegato? Non direi. Infatti il lettore moderno rimane per lo meno perplesso di fronte al fatto che sia accettata tacitamente l’istituzione della schiavitù e predicata l’ubbidienza ai padroni da parte degli schiavi. Si potrà dire che storicamente non possiamo pretendere che Paolo potesse immaginare un mondo senza schiavi, visto che il mondo era fatto così… Ma non è sufficiente per levare un certo senso di amarezza. Infatti, come possono coesistere l’affermazione che in Cristo «non c’è né schiavo né libero» di Galati 3, 28 e il fatto che Onesimo venga ri-inviato al suo padrone? 

E se questi pensieri vengono in mente a me, europeo che non ha mai conosciuto la schiavitù, possiamo immaginare quanto più suonino attuali per chi la schiavitù l’ha conosciuta e ancora ne deve subire gli effetti, come gli afroamericani negli Stati Uniti. Ed è proprio in questo contesto che nasce il libro Onesimo, nostro fratello*, composto da sette saggiscritti da altrettanti autori quasi tutti afroamericani impegnati nella predicazione e nell’insegnamento, i quali leggono la lettera di Paolo a partire dalla loro esperienza storica ed esistenziale – e qui sta l’originalità del libro. La riflessione dei nostri autori muove su tre livelli: l’analisi del testo e la storia dell’interpretazione, la realtà della schiavitù e della segregazione negli Stati Uniti del XIX secolo e infine un nuovo incontro con il messaggio dell’apostolo Paolo.

È certo che la Lettera a Filemone sia stata utilizzata dai predicatori bianchi per giustificare la schiavitù negli Stati del Sud; ma commentatori moderni si domandano se non siano possibili altre letture e interpretazioni non coincidenti con quella classica. Inoltre, oggi risulta difficile per noi comprendere che cosa fosse realmente la schiavitù, sia nell’antichità sia nell’Ottocento. Sarà bene ricordare, allora, che era ritenuto “normale” che lo scopo della punizione dello schiavo fosse quello di annullarne la volontà, sottomettendolo totalmente alla volontà del padrone. Lo schiavo era “una cosa” e come tale non solo non aveva diritti, ma non doveva avere voce. Come può dunque uno schiavo o un figlio di schiavi, si chiedono i nostri autori, accettare una parola apostolica e una predicazione che giustifichino un simile stato di cose e la perdita totale della dignità umana? Onesimo, o chi come lui ha patito una tale disumanizzazione, non rifiuterà di tornare dal padrone, alla situazione precedente la fuga?

Non dobbiamo pensare che, riflettendo sulla schiavitù – sia quella antica sia quella negli Stati Uniti – parliamo di cose lontane, che non ci coinvolgono. La “peculiare istituzione” ha condizionato non solo la personalità delle vittime, dei neri, ma anche la coscienza degli oppressori, dei bianchi. Ancora oggi infatti la segregazione produce i frutti avvelenati e lo si vede in questi giorni negli episodi di violenza della polizia nei confronti, guarda caso, di afroamericani.

Come dobbiamo, dunque, leggere la Lettera a Filemone, a partire da tali esperienze, e come rapportarci con la predicazione di Paolo? Innanzitutto – e qui mi pare di cogliere l’aspetto più profondo e innovativo del libro che stiamo esaminando – dobbiamo mantenere dell’apostolo una visione complessiva, originata dalla lettura sia degli Atti sia delle Epistole: Paolo è stato anche lui un perseguitato e quindi, quando parla di sé stesso come “schiavo”, sa di che cosa sta parlando. In secondo luogo dobbiamo imparare a non banalizzare la portata dell’incontro, favorito da Paolo, che deve avvenire tra Onesimo e Filemone – tra il “fuggiasco” e il “padrone”. Un incontro che possiamo immaginare drammatico. Con la sua breve lettera, Paolo avvia un processo di riconciliazione (p. 231) in cui schiavo e padrone devono prendere coscienza della loro condizione e dell’eredità culturale e spirituale, compiendo un percorso che consenta di sentirsi fratelli. Onesimo e Filemone devono imparare a uscire dallo schema schiavo/padrone che la società impone, trovando, nella loro comune umanità redenta dal Cristo crocifisso e risorto, il terreno per un nuovo incontro liberante per entrambi.

In questo vediamo la profonda attualità di questo libro, che ci aiuta a riflettere sulle molte barriere che noi poniamo fra gli esseri umani: barriere di razza, di genere, di cultura, e ci indica – come Paolo indicò a Onesimo e a Filemone – un percorso, sia pur faticoso, per incontrare l’altro.

Nessuno può pensare di non essere coinvolto da queste dinamiche. Un esempio mi è stato dato da un dettaglio che mi ha colpito. Si racconta (p. 219) che nel 1894, a Monett e in altre cittadine del Missouri ebbero luogo dei linciaggi che costrinsero con la violenza la popolazione nera a fuggire. Questo fatto ha destato la mia attenzione perché dal 1875 si era stabilita a Monett una comunità valdese, che esiste ancora oggi, la Waldensian Presbyterian Church. Mi è venuto naturale chiedermi: chissà come reagirono e che cosa fecero in quei giorni, i valdesi di Monett…

* Matthew V. Johnson, James A. Noel, Demetrius K. Williams edd., Onesimo nostro fratello. Religione, etnia e cultura nella lettera a Filemone– Torino, Paideia, 2019, pp. 318, euro 33,00.

 

Foto: un  frammetno del papiro contenente la Lettera a Filemone di Di Christian bitencourt, CC BY-SA 3.0