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La “guerra dei gamberi”, un fallimento del diritto

Sono trascorsi 85 giorni da quando 18 pescatori di Mazara del Vallo, in Sicilia, si trovano bloccati a Bengasi, la più importante città costiera della Cirenaica, nell’est della Libia.

Gli equipaggi dei pescherecci “Medinea” e “Antartide” erano infatti stati fermati dalle autorità libiche lo scorso primo settembre, a una quarantina di miglia dalle coste. Si tratta di otto italiani, sei tunisini, due filippini e due senegalesi che vivono in Sicilia da anni.

In questi tre mesi le autorità della Cirenaica, che rispondono al maresciallo Khalifa Haftar, che si oppone da anni al governo di Tripoli, hanno fornito poche e frammentarie informazioni, ma nel frattempo la situazione si fa sempre più preoccupante.

Proprio per questo, lo scorso fine settimana un centinaio di persone si sono riunite ancora una volta in Sicilia per chiedere la liberazione di chi è accusato, genericamente, di aver oltrepassato le acque territoriali e di aver pescato in acque libiche.

La questione parte da lontano, almeno dal 2005, l’anno dell’inizio della cosiddetta “guerra dei gamberi” tra Italia e Libia. Da tempo, infatti, i libici accusano i pescatori italiani di entrare nelle acque territoriali libiche per catturare gamberi rossi.

Quindici anni fa, a capo della Libia si trovava saldamente il dittatore Muammar Gheddafi, che di punto in bianco decise di estendere unilateralmente le acque territoriali del Paese da 12 a 74 miglia dalle coste, promettendo che la marina libica avrebbe attaccato ogni nave straniera che si fosse avventurata in quell’area, considerando la loro semplice presenza come un atto ostile, un’invasione e un furto di risorse naturali. Quella decisione di Gheddafi, in aperto contrasto con il diritto internazionale, portò al moltiplicarsi degli incidenti, almeno 30, che in questo decennio e mezzo hanno contribuito a erodere l’industria ittica di Mazara del Vallo.

Eppure, il sequestro del 1 settembre è senza precedenti per dimensione e durata: di norma, questi eventi duravano pochi giorni e si risolvevano con una multa e un avvertimento, e questa prassi è sopravvissuta anche alla rivoluzione del 2011 e all’insediamento di nuovi governi in successione, tanto a Tripoli quanto a Bengasi e Tobruk.

Questa volta, invece, Bengasi sta trattenendo i pescatori oltre ogni aspettativa, mostrando l’ennesimo aspetto critico nell’assenza di uno Stato di diritto in ogni parte della Libia di oggi.

Mentre a Tunisi si negozia per la creazione di un nuovo governo di unità nazionale, che metta fine alla guerra civile, il percorso di creazione del nuovo Stato libico è evidentemente fermo al palo: dalla sistematica violazione dei diritti umani all’uso di mine antipersona, dal traffico di armi alla costante presenza di potenze straniere, la distanza dalle regole internazionali è enorme.

In condizioni come queste, per la diplomazia le strade da percorrere sono limitate, ma per l’Italia il discorso è ancora più complicato: con la cacciata di Gheddafi, con cui si intrattenevano rapporti spesso di tipo personale prima ancora che politico, Roma ha perso gran parte della sua rilevanza in Libia, e il suo sostegno al Governo di Accordo Nazionale di Fayez al-Sarraj, supportato dalle Nazioni Unite, rende inutili i tradizionali canali del diritto internazionale quando si tratta di dialogare con Haftar.

Proprio per questo, le richieste di Bengasi sono molto diverse dalla semplice multa: nel caso dei 18 pescatori catturati a settembre, Haftar ha chiesto a Roma di liberare quattro calciatori libici, detenuti in Sicilia da quando la procura di Catania li ha condannati a 30 anni di carcere per tratta di esseri umani.

Inoltre, le politiche migratorie italiane ed europee rendono la questione libica particolarmente delicata: dal febbraio 2017, l’Italia prima e l’Unione europea poi hanno individuato in Tripoli il partner fondamentale nel contenimento dei percorsi migratori, firmando accordi con la guardia costiera libica, che fa parte della marina di Tripoli, ricevendo in cambio di denaro, mezzi e formazione la promessa di fermare le persone che cercavano di arrivare sulla sponda nord del Mediterraneo.

Questa visione europea della Libia come puro strumento di contenimento delle migrazioni ha messo sullo sfondo le necessarie politiche di stabilizzazione regionale e di costruzione del nuovo Stato, lasciando inoltre che le potenze straniere, regionali e non (Russia, Turchia, Egitto, Emirati Arabi Uniti su tutte), aumentassero la loro influenza, al punto che l’Italia, per convincere Haftar a liberare i pescatori, si è rivolta a Mosca, al Cairo e ad Abu Dhabi.

Esiste anche un discorso di responsabilità di cui i pescatori di Mazara del Vallo pagano il prezzo: più è ampia la zona delle acque territoriali libiche, minori saranno le responsabilità europee nel campo della ricerca e soccorso.

Al netto della strumentalizzazione politica della vicenda, da alcuni presentata come una questione di orgoglio nazionale, è grande la frustrazione dei parenti dei pescatori sequestrati e delle organizzazioni che si occupano di pesca. Le associazioni di categoria chiedono di essere coinvolte nelle discussioni sulla regolamentazione delle zone economiche esclusive per la pesca nel Mediterraneo al fine di garantire un ambiente di lavoro più sicuro per i pescatori, mentre i familiari dei pescatori continuano a chiedere al governo di prendersi cura della loro sorte. Eppure, finora, dalla politica la risposta più significativa è stato il silenzio.