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Spettacolo, settore a rischio

Tra i settori produttivi colpiti dal Coronavirus c’è quello del mondo dello spettacolo, settore che in Italia occupa circa 570.000 persone impiegate dietro e davanti alle quinte. Calati i sipari e lontani dai riflettori, molti stanno perdendo l’unica fonte di sostentamento. La decisione contenuta negli ultimi Dpcm di sospendere nuovamente le attività di teatri e cinema ha lasciato spiazzati i soggetti coinvolti, soprattutto se si considerano i dati a disposizione. Recentemente l’Associazione generale italiana dello spettacolo (Agis), ha dichiarato che «su 347.262 spettatori in 2.782 spettacoli monitorati, con una media di 130 presenze per ciascun evento, nel periodo che va dal 15 giugno – giorno della riapertura dopo il primo lockdown – a inizio ottobre, si registra un solo caso di contagio da Covid-19 sulla base delle segnalazioni pervenute dalle Asl territoriali». E allora? Come spiegarsi l’ennesima chiusura di teatri e cinema? Lo abbiamo chiesto a Luciano Cannito, coreografo e regista, che ha realizzato più di 70 produzioni per le maggiori compagnie e teatri in Italia e all’estero; oggi è direttore artistico di Art Village a Roma, Accademia che accoglie una scuola di danza, di musica, di canto, recitazione e musical.

«Il settore dello spettacolo è stato massacrato – afferma senza giri di parole Cannito –. Credo che i teatri, i cinema siano stati nuovamente chiusi perché in un momento di crisi mondiale come quella che stiamo vivendo – indipendentemente da quelli che fossero i dati reali dei contagi riferiti al settore –, è stato più semplice chiudere anziché riconoscere che i teatri, i cinema, come anche le scuole, attuano un contingentamento e un monitoraggio all’ingresso tale da essere luoghi più sicuri di una strada affollata dello shopping in un centro cittadino, a esempio. Non si considera mai abbastanza il fatto che quando si chiudono i teatri, i cinema, vengono coinvolte migliaia di lavoratori: artisti, maestranze, costumisti, scenografi, tecnici audio e delle luci… tutti a casa! Alcuni hanno avuto un piccolo sostegno economico, tanti altri invece non hanno ricevuto nulla. Molti luoghi in cui per anni si è fatta cultura non riapriranno più. Ciò che mi preoccupa ancor più è che, anche quando l’emergenza Covid sarà passata, la situazione non cambierà».

– In che senso?

«Se l’informazione insiste quotidianamente sulla paura dei contagi, delle morti, e sui rischi che si corrono a stare in luoghi chiusi, questo avrà sicuramente degli effetti a lungo termine sulle persone. Mi chiedo: gli italiani torneranno a teatro, al cinema o continueranno a pensare che sono luoghi dove ci si può ammalare?».

– Lei è direttore artistico dell’Art Village, dove lavora a stretto contatto con i giovani. Come stanno vivendo questo tempo?

«Tenere ancora chiuse le scuole, tra cui anche quelle di danza, è un errore clamoroso. Ho l’impressione che i ragazzi, bloccati per ore e ore davanti allo schermo di un computer o di uno smartphone, si stiano abituando a questa situazione di immobilismo, le cui conseguenze non ci è dato di sapere. Lo Stato dovrebbe concentrare tutte le sue energie per mettere in campo misure che consentano ai giovani di riprendere in tutta sicurezza la loro vita. Gli studi scientifici hanno dimostrato che svolgere attività fisica fa bene al benessere non solo fisico di un individuo, eppure, ce ne siamo dimenticati. Vorrei inoltre ricordare che le scuole, anche quelle di danza, di canto, di recitazione, sono per molti ragazzi che vivono in contesti disagiati, violenti, a rischio, dei veri e propri presidi vitali».

Da alcune settimane lei ha cominciato a creare, a una distanza di 7000 km e collegato in streaming, lo spettacolo di balletto Lo Schiaccianoci perduto per la Compagnia statunitense Tulsa Ballet in Oklahoma (Usa): un esperimento considerato impensabile fino ad alcuni mesi fa. Quali sono i pro e i contro?

«Come tutte le crisi hanno mostrato nella storia, anche questa ha stimolato la mente umana a trovare soluzioni per non lasciarsi abbattere. In un momento in cui non è consentito spostarsi tra gli Stati, la tecnologia mi ha consentito di fare un esperimento di lavoro che, da virtuale, si è trasformato in qualcosa di reale: collegato in streaming ho lavorato con un gruppo di 24 danzatori che provano in sale separate. Il 17 dicembre questo spettacolo debutterà in teatro dal vivo, alla presenza di un pubblico in sala. L’aspetto positivo, che rimarrà anche in futuro, è di aver imparato a usare la tecnologia, le diverse piattaforme digitali di comunicazione, che ci hanno permesso di colmare le distanze, di rimanere connessi, risparmiando soldi, tempo, e inquinando anche meno. L’aspetto negativo, invece, è che, mentre costruivo questo spettacolo da remoto, ho vissuto il grosso limite di non percepire l’emotività delle persone con le quali stavo lavorando. Le emozioni, la relazione empatica che si crea con gli altri artisti non riuscivano a passare attraverso il maxischermo. Molti mi hanno detto che il balletto che ho creato nell’altra parte del mondo è venuto bene, ma io non riesco ancora a percepirlo perché c’è un pezzo importante che mi manca. Ho detto al direttore della compagnia statunitense che faccio fatica a credere di aver voglia di fare un altro spettacolo così in futuro. Non vedo l’ora di tornare, insieme agli artisti della mia compagnia e ai miei studenti, a danzare e a vivere l’arte con i nostri corpi e le nostre emozioni».