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Fusione Fiat-Peugeot, addio dell’auto in Italia?

La fusione Fiat-Chrysler con Peugeot è una operazione finanziaria e industriale che secondo i promotori punta a far diventare la nuova società nominata “Stellantis” come la quarta produttrice mondiale di automobili, ma che diluisce ancora più l’impegno italiano in un comparto che per anni è stato strategico nell’economia e nella politica del nostro Paese.

Ne parliamo con Cesare Damiano, già ministro del Lavoro ai tempi del secondo governo Prodi (2006-2008) dopo una lunga carriera spesa all’interno della Fiom-Cgil piemontese, la categoria metalmeccanica del sindacato più importante.

– La fusione Fca-Psa è principalmente un’operazione di politica industriale o un’azione puramente finanziaria?

«Nella fusione tra Fca e Psa sono presenti sia gli aspetti industriali sia quelli finanziari anche se, probabilmente, assumono pesi diversi. Dal punto di vista industriale sono importanti sia gli elevati volumi produttivi previsti (8 milioni di vetture e 180 miliardi di fatturato), che consentiranno di poter effettuare un adeguato volumi di investimenti nell’innovazione del prodotto, sia la complementarietà dei mercati, con Fca fortemente presente nelle Americhe, dove Psa è poco presente o assente, mentre quest’ultima è più avanti nel settore della propulsione elettrica. In altre parole, una accelerazione nelle economie di scala».

– E’ l’addio definitivo degli Agnelli, quindi di Torino e dell’Italia, alla sua storica industria?

In prospettiva le ragioni finanziarie sembrano apparire prevalenti rispetto a quelle industriali. Innanzitutto nella fusione, gli azionisti hanno ottenuto miliardi di euro di dividendi da Fca. Secondariamente, con questa operazione, gli Agnelli – cioè la famiglia oggi rappresentata da John Elkann, che dal 2009 è insediato al vertice di Exor (la holding di controllo del gruppo) – attuano una riduzione della loro presenza relativa nel settore dell’auto rispetto a quella che hanno in altri settori. Nei fatti dal 30% di Fca passeranno ad avere il 14,4% di Stellantis, la nuova società che nasce dalla fusione di Fca con Psa. Col 30% Exor è non solo il maggior azionista di Fca, ma anche l’azionista di riferimento, cioè quello che governa l’impresa e che dunque ha responsabilità strategiche e pubbliche nei suoi confronti e nei confronti degli altri soci, dei lavoratori, dei fornitori e dei clienti. Col 14,4%, invece, avrà responsabilità indubbiamente minori nel nuovo gruppo. Riducendo la propria presenza nella nuova impresa, riduce anche il rischio in un comparto che richiede alti investimenti e ha una bassa redditività. In altre parole, sembra che Exor stia attuando una strategia di diversificazione degli investimenti, più che puntare al vecchio core business dell’auto».

– Quali prospettive vede per l’industria automobilistica italiana e quindi per i suoi lavoratori?

«In questo contesto la posizione degli stabilimenti e dei lavoratori italiani appare abbastanza precaria: già la formazione di Fca aveva spostato molti interessi industriali negli Usa a scapito delle produzioni italiane. Si deve ricordare che, a Torino, la produzione di autovetture è scesa in poco più di dieci anni da oltre 210 mila unità alle 21 mila del 2019. Questa ulteriore formazione di un gruppo internazionale con queste caratteristiche rischia di creare ulteriori problemi.

Si deve aggiungere che nel nostro Paese oltre a Fca esiste un composito e importante settore industriale di componentisti: occupa tuttora circa 250mila addetti (di cui circa 34.000 in Fca) in circa 5.700 imprese, il fatturato complessivo è di 93 miliardi, pari al 5,6% del Pil (dati 2019).

Su questi aspetti si deve segnalare che autorevoli esperti del settore hanno previsto un ridimensionamento o una chiusura delle attività di progettazione svolte in Italia, con il trasferimento in Francia, con il conseguente spostamento anche dei fornitori che producono componenti e sistemi. Va evidenziata la debolezza dei principali stabilimenti italiani di Fca: Mirafiori e Cassino sono largamente sottoutilizzati. Il relativo insuccesso della strategia di mercato nel segmento premium, in particolare i modelli Alfa Romeo, portano rilevati problemi di insaturazione di questi stabilimenti. La sottoutilizzazione delle nostre fabbriche comporta il rischio di ulteriori ridimensionamenti, soprattutto nella fase successiva in cui si procederà alla razionalizzazione delle produzioni nell’avvio dei nuovi modelli di auto».

Si può pensare a una inversione di tendenza in extremis sul fronte produzione in Italia?

«Per dare un nuovo impulso agli stabilimenti italiani sarebbe necessario una adeguata pressione da parte delle istituzioni e da parte della componente nazionale di Fca, ma su questo non si avverte alcun segnale».

Foto di Guilherme Rosa/PR