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Vero e menzogna nel castello di Sciascia

Proprio oggi 8 gennaio Leonardo Sciascia compirebbe 100 anni. Nel novembre del 1988 usciva «Il cavaliere e la morte», penultimo libro pubblicato in vita dallo scrittore siciliano. In questo articolo pubblicato nel 1989 sull’allora giornale delle chiese valdesi “La Luce”,  il pastore Giorgio Tourn, cogliendo il peso delle riflessioni dell’autore intorno alla ricerca della verità, ne riprende alcuni temi per indirizzarci un richiamo al compito di annuncio da parte dei credenti, con il riferimento finale al testo di Matteo 5, 14.

Ecco il testo dell’articolo:

Tempo, spazio, competenza ci fanno difetto per ripercorrere a ritroso il cammino dell’ultima stagione letteraria italiana, dell’autunno ’88 per intenderci, e scoprire lungo i gironi infernal-purgatoriali il cammino della nostra coscienza moderna. Chi, dotato più di noi e disponendo dei delicati strumenti della critica letteraria, risalga dalle luminose e cupe ambientazioni sciasciane attraverso i torbidi anfratti della Roma moraviana fin nelle labirintiche e borrominiane strutture di Umberto Eco, lo faccia ed avrà la nostra riconoscenza perché ci aiuterà a comprendere meglio l’animo, o l’animus, di questa nazione di cui siamo cittadini.

Mi limiterò invece a segnalare ai lettori due citazioni dell’ultimo libro di Leonardo Sciascia, «Il cavaliere e la morte», al cui fascino non ho saputo sottrarmi. Ecco la prima:

«Io invece, ebrei o no, non ho simpatia per i convertiti: ci si converte sempre al peggio anche quando sembra il meglio. Il peggio, in chi è capace di convertirsi, diventa sempre il peggio del peggio».

L’argomento della discussione è futile, di più non potrebbe esserlo, si tratta del fumo: il Capo ha smesso, il Vice non intende smettere e non intende convertirsi alla nuova idea (potrebbe dirsi addirittura fede) del superiore. Scelta legittima, che egli motiva però con questa istintiva avversione per ogni tipo di conversione, ed a giustificare la quale si sente in dovere di fare riferimento alla vicenda dei marrani spagnoli, ministri ed inventori, a suo dire, dell’Inquisizione. Il convertito è sempre fanatico, più fanatico del praticante stesso, porta in sé i germi dell’intolleranza, ma c’è di più, sembra dire Sciascia: non sei solo tu che diventi peggiore; è il tuo mondo di riferimenti che è peggiore, è la tua condizione oggettiva che si è mutata in peggio. Approccio squisitamente siculo alla storia; o, per meglio dire, approccio alla storia della classe dirigente sicula, della itellighenzia dell’isola?

Forse, ma approccio ormai generale di tutta la cultura italiana al fenomeno della conversione, del mutamento, del rinnovamento: il dopo è sempre peggio del prima, la Repubblica del fascismo, il liberalismo del feudalesimo, i piemontesi dei Borboni. E trasferito nella realtà di casa nostra, in quella che a noi sta più a cuore di tutte: l’evangelizzazione, la predicazione dell’Evangelo? La stoica, rassegnata, irridente sapienza di Sciascia e della sua isola, ormai ombelico (nel senso greco dell’«onphalon», centro di convergenza e di significati del reale) dell’Italia post-moderna, conduce a una sola conclusione: inutile, ridicolo, assurdo convertirsi quando sai che dopo non sarà meglio di prima, ma peggio di prima. Per ritrovarsi con le stesse frustrazioni e gli stessi irrisolti problemi, gli stessi conflitti e le stesse compromissioni, perché mutare? Affonda senza rimorso nel fumo mortale della sudditanza e della dipendenza.

Donde trae però questa convinzione il Vice di Sciascia ed il nostro paese con lui? Egli guarda dinanzi a sé, appesa al muro, la stampa del Dürer che raffigura il cavaliere, la morte e il diavolo nella selva. Grande capolavoro del pittore tedesco, poi seguace di Lutero, enigmatica e inquietante; chi sia il diavolo si sa, chi sia la morte si pensa di saperlo, ma chi sia il cavaliere resta difficile dire. E il Vice li guarda e pensa (ed è la seconda nostra citazione):

«sarebbe mai arrivato alla chiusa cittadella, in alto, la cittadella della suprema verità, della suprema menzogna?».

Il castello è là, punto geometrico appena percettibile sull’orizzonte, ma il diavolo non lo vede, troppo preoccupato ad inseguire il cavaliere, né lo vede la morte che gli volta le spalle, e neppure lo vede il cavaliere che incede rigido e ferrigno nella sua armatura. E quand’anche lo vedesse e per ventura visi dirigesse mutando il suo cammino, che accadrebbe? Nulla; che mutamento ne deriverebbe? Alcuno, perché là sul colle si congiungono e si coniugano indissolubilmente la suprema verità e la suprema menzogna. Come nel castello padronale che si erge sul monte e che i servi vedono masso pietrificato della tragica realtà della loro condizione umana aureolata della irrealtà della luce nel baluginare del meriggio.

Ma forse i padri di Sciascia non erano là nei campi a misurarsi con il dramma lacerante della verità-menzogna. Forse ciò che egli intende dirci per bocca del Vice è questo: l’inverarsi dell’essere si realizza nel totale immenzognirsi della condizione umana, sei veramente te stesso solo allorquando tutto si è dissolto nell’impalpabile luminosità del non essere.

Quanto diverso, ci vien subito da pensare, quell’altro castello, quell’altro sguardo (e sono quelli da cui trae vita la nostra coscienza moderna), quello che dalla collina innevata domina, ossessiona, affascina l’agrimensore K.: l’irraggiungibile luogo del vero. Quello è il castello del romanzo di Franz Kafka e l’agrimensore, cioè noi, lo guardiamo come il piccolo Franz guardava dal suo ghetto l’immenso, inspiegabile mondo di torri, finestre, cupole nella luce del tramonto lassù sulla collina oltre la Moldava.

L’agrimensore non raggiungerà il castello, non troverà la verità perché chi può trovarla nei cortili silenziosi, nelle viuzze morte, nei cortili deserti del Castello di Praga? Ma forse nelle stanze più remote, forse nella soffitta illuminata, lassù sul tetto del palazzo della cancelleria, c’è chi la conosce, la verità. Nel castello di Sciascia (altro da quello di K. ed anche altro da quello di Dürer) non c’è più, anzi non è mai stata.

La verità, sia quella assoluta, di Dio e del Vero, sia quella contingente, la tua, del tuo vivere cotidiano, non esiste, è solo un risvolto della Menzogna (con la maiuscola!).

Non c’è verità né menzogna, vero o falso, reale o illusorio, tutto è egualmente vero e illusorio e tutto si capovolge e stravolge in un universo di insignificanza. L’unica realtà che esista e sia carica dell’assoluto, in quanto sta oltre il vero ed il falso e ne è la sintesi perfetta e definitiva, è la morte. Chissà, pensa il Vice, che non sia proprio lei a cavalcare sotto le spoglie del cavaliere solitario chiuso in sé ed indifferente al mondo?

Ma forse Sciascia si inganna, come i pagani mediterranei divorati ed ossessionati dalla luce e dal sole in cerca perenne dell’ombra; inseguendo l’ombra assoluta o la luce assoluta non si accorge che anche il dubbio si insinua a corrodere la morte: il suo Vice muore della morte-menzogna del killer e non di quella vera del cancro; la sua morte stessa si dissolve nell’insignificante e nel non falso. O forse proprio in questo sta la sublime sua perfezione?

E noi, figli della conversione, lettori instancabili della lotta fra Vero e Menzogna, che andiamo facendo nella boscaglia? Che andiamo cercando e predicando? Che crediamo fare e proporre a un popolo che filosofeggia come il Vice? Nulla, ridicole divagazioni pie, ingenui proclami infantili sopra i nostri discorsi. A meno che si trovi una contadina siciliana, una cugina del Vice, per raccontare a Sciascia come ha trovato la Verità e come questa Verità l’abbia fatta rinascere. E questa donna esiste, è reale, concreta, presente in molte nostre comunità ed è la sua esistenza che costituisce il miracolo preannunziato da Gesù: il castello sul colle non può essere nascosto, anzi non il castello, la città, quella di Dio.

«La luce», 10 febbraio 1989