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Stati Uniti, la politica deve intercettare il disagio del Paese

Il raccapricciante attacco di un’enorme folla furiosa al Campidoglio di Washington il 6 gennaio sarà oggetto di studio da parte di politologhi, giornalisti e storici per molti anni. Tantissime domande rimangono per il momento senza risposta. Perché il sistema di sicurezza intorno all’aula del Senato e della Camera è stato tragicamente inadeguato? Come mai i pochi agenti di polizia lasciati lì per affrontare un mare di persone intente a fare irruzione nel Campidoglio hanno riposto in un modo così blando e accomodante, una maniera ben diversa da quella usata dalla polizia in tante citta, la scorsa estate, nei confronti dei manifestanti pacifici di Black Lives Matter? Questi ultimi sono stati sempre affrontati con gas lacrimogeni, proiettili di gomma e bastoni. E ancora: che cosa si aspettava veramente Donald Trump quando, la mattina dell’attacco, ha continuato a infiammare gli animi dei suoi fan parlando di una elezione rubata, usando parole che incitavano alla violenza? Non sarà possibile arrivare a un cambio di rotta nella società e nella politica americana, oggi avvelenate da tribalismo, rabbia e sfiducia, senza un sincero tentativo di trovare le risposte alle domande sopracitate. E ad altre ancora.

Chi scrive non ha tutti gli strumenti necessari per esaminare tali questioni né lo spazio in questo breve commento per delucidarle. Invece vorrei soffermarmi sull’aspetto personale, dell’impressione visiva che ho avuto, cioè lo spettacolo di un enorme branco di teppisti che fa irruzione in un luogo che tutti i ragazzi americani nelle scuole elementari sono invitati a considerare “sacro” – almeno era così ai miei tempi. Lo choc provocato dall’immagine dell’incursione mi ha disorientata e sconvolta per molte ore. Un elemento particolarmente difficile da comprendere era il misto fra aspetti carnevaleschi (costumi strani, comportamenti buffi e giocosi, eccetera) e l’intento seriamente micidiale di alcuni rivoltosi, quelli che sono venuti armati, forniti di manette per deputati e senatori fino al cappio del boia per giustiziare il vicepresidente Pence, secondo loro colpevole di tradimento contro il grande leader Trump.

Venerdì ho trovato sui miei scaffali una copia in inglese del libro dello storico francese Emmanuel Le Roy Ladurie Le Carnaval de Romans (1979 – in Italiano «Il Carnevale di Romans»). Si tratta di uno studio socio-economico su una cittadina nella Francia meridionale teso a spiegare perché nel 1580 si produsse la trasformazione da una celebrazione annuale del carnevale a un massacro crudele e sanguinoso, una specie di guerra di classe avant la lettre. Anche in quel caso si verificava la strana e inquietante mistura fra buffonerie carnevalesche e intento cruento. Per secoli in Europa il periodo del Carnevale aveva offerto ai membri delle classe subalterne un momento per sfogarsi, per impersonare essi stessi i prìncipi, nobili e giudici. Quell’appuntamento annuale dava loro almeno un paio di giorni di “fuga psicologica” dalla loro condizione di sottomissione e esclusione sociale. Guardando uno degli intrusi al Campidoglio mercoledì scorso, quello che stava seduto sorridendo con il piede sulla scrivania di Nancy Pelosi, ho pensato ai quei piccoli artigiani di Romans durante il loro Carnevale.

Non è facile capire tutte le fonti di disagio di una grande fetta della popolazione americana oggi, non è facile capire la grande rabbia di queste persone, ma senz’altro essa si struttura in molteplici forme di disuguaglianza. Nel 1580 la classe dirigente non aveva accesso agli strumenti per indagare sui motivi di disagio dei loro concittadini poveri, ignoranti e senza grandi speranze per il futuro. Invece i politici americani oggi non hanno la scusa della mancanza di strumenti necessari per capire i loro oppositori. Forse manca loro la voglia di farlo. Secondo me però, gli eventi del 6 gennaio illustrano il pericolo che minaccia la nazione, se nessun tentativo onesto di dialogo e reciproca conoscenza non verrà intrapreso.