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Il grande inganno giudiziario si chiama criminalizzazione della solidarietà

Nelle pieghe dei decreti di autorizzazione alle intercettazioni telefoniche firmati dal sostituto procuratore della repubblica di Trapani, Andrea Tarondo, a partire dall’estate del 2017 nei confronti di alcuni esponenti delle maggiori Ong internazionali, Medici Senza Frontiere (che proprio negli scorsi giorni ha festeggiato i cinquanta anni di attività umanitaria) e Save The Children, ci sono alcuni dettagli che colpiscono, particolarmente. Che ci parlano della criminalizzazione del diritto al soccorso delle persone in mare, in primo luogo.

Scrivono gli investigatori: «la pregressa attività di indagine ha chiarito che l’armatore Wroon Offshore Service ha noleggiato le due imbarcazioni alle Ong Medici Senza Frontiere e Save The Children, garantendo la sicurezza a bordo tramite due società interinali indicate come “G7” di Roma per la Prudence e “Imi Security Service” per la Vos Hestia».

Aggiungendo anche che «successivamente, essendo cessate le esigenze investigative, non fornendo le utenze monitorate ulteriori elementi, si è ritenuto di concludere l’attività tecnica alla scadenza naturale». Salvo, poi, subito riportare una conversazione tra un manager della compagnia armatrice Wroon Offshore Service e un operatore della Ong Save The Children, considerata particolarmente importante dagli investigatori tanto da risultare evidenziata, nei brogliacci di indagine. Ma che in sostanza riguardava esclusivamente la cronaca di un salvataggio.

Raccontava, in questo senso, l’operatore umanitario intercettato: «noi eravamo al limite delle 12 miglia, però abbiamo lavorato con i fast rescue boat nostri, quelli dell’Aquarius, della nave Gregoretti, motovedette della guardia costiera libica che… non si capivano, portavano indietro i gommoni, smontando i motori. Un mare di migranti; ieri abbiamo salvato un mare di migranti, tra noi, l’Aquarius, imbarcazione di Msf, e la Gregoretti, nave della Guardia Costiera Italiana, ne abbiamo presi 2.500».

Per la Procura di Trapani, questo racconto è «l’evidenza che le operazioni di Search and Rescue si fossero svolte ragionevolmente alla presenza di alcuni trafficanti che, dopo il salvataggio di 2500 migranti riportavano verso la Libia i motori e le imbarcazioni su cui avevano viaggiato i predetti stranieri». E, dunque, sarebbe la prova di un accordo criminoso.

Un altro dettaglio, invece, in qualche modo connesso al primo, che ci fa parlare di criminalizzazione della solidarietà, ha a che fare con quello che ha ricordato proprio ieri l’altro Luigi Manconi dalle pagine de La Repubblica. E cioè: l’ex senatore Manconi (anche lui intercettato dalla procura di Trapani, come ha rivelato il quotidiano Domani in una inchiesta giornalistica congiunta con il Guardian e Rai News) descrivendo la figura del sacerdote eritreo Don Mussie Zerai, tra i primi a finire nel mirino dello Sco, il Servizio Operativo della Polizia che insieme alla Squadra Mobile di Trapani ha condotto le indagini (la cui posizione è stata ora archiviata, insieme a quella di altri esponenti di Msf) ha citato alcune pagine del libro La Frontiera, l’ultimo scritto dal mai dimenticato «talento della letteratura», Alessandro Leogrande.

E in cui si legge: «Il numero di padre Zerai è scritto sui muri delle prigioni libiche, nei capannoni dei trafficanti, sulle pareti dei cassoni dei camion che attraversano il deserto». E ancora, scriveva Leogrande: «negli stanzoni angusti in cui i profughi sono spesso ammassati lungo la tratta, tanto che quel numero si è propagato capillarmente, di mano in mano, di bocca in bocca, come una sorta di numero verde». Dunque, che padre Zerai aiutasse migliaia di profughi in fuga dalla Libia e dal Corno d’Africa, non era di certo un mistero. Eppure, tra le oltre ventottomila pagine dell’inchiesta della procura di Trapani (di cui siamo in possesso) sono allegate alcune note della polizia giudiziaria che osservano come Zerai abbia «contatti diretti con gli organizzatori dei traffici dei migranti», e, allo stesso tempo, i poliziotti annotano che «il soggetto che chiama Zerai non è dato sapere se sia uno degli organizzatori del traffico, uno scafista, o un migrante».

E tuttavia, ancora, gli investigatori dello Sco di Roma e la Squadra Mobile di Trapani rilevano: «il soggetto chiama durante la navigazione mentre il barcone dei migranti si trova in mare, la telefonata è specificatamente rivolta al salvataggio in mare». Per cui, concludono i detective: «ciò implica che il soggetto che chiama sia a conoscenza del fatto che Zerai può fornire uno specifico ed immediato apporto quanto alle operazioni di salvataggio in mare, tanto da preferire tale riferimento a quello dei numeri di emergenza italiani o della stessa Guardia Costiera Italiana».

Padre Zerai, poi, sarà archiviato da tutte le accuse, tanto che il suo nome non compare nell’avviso di conclusione indagini disposto l’11 gennaio del 2011 dai magistrati della procura di Trapani, Brunella Sardoni e Giulia Mucaria, nei confronti di 21 indagati, tra esponenti delle Ong Medici Senza Frontiere e Save The Children e della compagnia di navigazione Wroon Offshore Service. E, da qui, l’ipotesi che le indagini iniziali abbiano voluto, in qualche modo, colpire le attività del soccorso in mare e dell’aiuto ai migranti. Che sia trattato, in una qualche misura, di una operazione giudiziaria (con la sponda della politica) tesa, dunque, alla criminalizzazione della solidarietà. 

Più, in generale, c’è un documento elaborato dalla Direzione centrale della polizia di Frontiera del Ministero dell’Interno e inviato il 12 dicembre del 2016 allo Sco che sembra parlarci in questo senso. Il report di 27 pagine firmato dall’allora funzionario del Viminale, Vittorio Pisani (poi passato all’Aise, il servizio segreto interno) è una analisi scientifica dei flussi migratori. E in cui si legge, a proposito dell’aumento degli sbarchi in Italia, che «trova una concausa nella massiccia presenza di assetti navali, appartenenti o gestiti dalle Ong che pattugliano nel sud del Mediterraneo».

Non solo. Si rileva nel documento del Viminale: «è evidente che le barche delle Ong siano divenute una sorta di piattaforma in attesa al limite delle acque territoriali (se non addirittura al loro interno) dei gommoni provenienti dalla Libia». E questo, secondo i funzionari del ministero degli Interni, basterebbe a giustificare che «tale modalità di pattugliamento – nel quadro di analisi descritto – potrebbe costituire un indice rivelatore di un possibile preventivo accordo tra le organizzazioni criminali e l’equipaggio delle imbarcazioni». E la conferma ulteriore di questa ipotesi, infine, risiederebbe nel fatto che «gli equipaggi non sono composti da personale appartenenti alle Ong, quindi motivato all’imbarco e al soccorso da ragioni umanitarie».

Nei fatti, tale linguaggio sembra essere partecipe di un identica operazione politico-giudiziaria, quella che il giornalista Enrico Fierro ha definito la propaganda che ha creato i taxi del mare, rivelando anche -Fierro- che lo stesso metodo è stato usato da una altra procura italiana, quella di Locri che indagava sull’allora sindaco di Riace, Mimmo Lucano, registrando le conversazioni di giornalisti e giudici; nello stesso periodo in cui la procura di Trapani monitorava cronisti e operatori umanitari che si occupavano dei salvataggi in mare di persone in fuga dalla Libia, un paese non sicuro, secondo l’Onu.  

*Gaetano Demonte – Servizio stampa e comunicazione della Federazione delle chiese evangeliche in Italia e colaboratore con il quotidiano Domani 
Foto di Charly Gutmann da Pixabay