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Il dono di una seconda vita

Franco Bonisoli, ex responsabile delle Brigate Rosse, nel 1978 partecipa alla strage di via Fani dove viene sequestrato Aldo Moro. Arrestato, processato e condannato a quattro ergastoli, a metà anni Ottanta si dissocia dalla lotta armata e la carcerazione viene commutata in una pena a termine. Nel 2008, ormai libero, partecipa a un gruppo formato da vittime, familiari di vittime e responsabili della lotta armata che iniziano a incontrarsi, a scadenze regolari e con assiduità sempre maggiore, per cercare una via che possa ricomporre quella frattura che provoca ancora dolore; una via alternativa che affonda le sue radici nel paradigma della giustizia riparativa. A Bonisoli abbiamo rivolto alcune domande.

– Che cosa l’ha spinta ad accettare di intraprendere il percorso della giustizia riparativa?

«Questo cammino inizia quando ero ancora in carcere. Nel 1983, dopo il processo per l’assassinio di Aldo Moro, rientrai nel carcere di Nuoro dove fui preso da una profonda crisi interiore. Non mi riconoscevo più nella lotta armata, avevo rovinato la mia vita, quella della mia famiglia, e soprattutto quella delle vittime. Pensai che la mia vita fosse arrivata alla fine. Anche altri miei compagni vivevano le stesse cose e allora cominciammo uno sciopero della fame. Fu allora che accadde ciò che non ci saremmo mai aspettati: il cappellano, don Salvatore Bussu era preoccupato per noi, per dei terroristi. Ci riconosceva come persone e teneva alla nostra vita! Eravamo sotto Natale e don Salvatore decise che non avrebbe celebrato la messa perché dei suoi “fratelli” stavano morendo. Tutti i giornali ne parlarono. Da lì ho iniziato a guardare criticamente il mio passato, fino ad ammettere che ero uno sconfitto e che la violenza non ha nessuna possibilità di successo. Quando sei nella spirale violenta, abdichi alla tua umanità. Io sentivo il bisogno di ritrovare la mia umanità perduta. Fu in carcere che cominciai a incontrare volontari e vittime che mi riconoscevano come persona».

– L’incontro con le vittime prosegue dopo la scarcerazione definitiva nel 2001, usufruendo dei benefici della legge sulla dissociazione e della nuova legge di riforma penitenziaria. 

«Allora incontrai padre Guido Bertagna che, insieme al criminologo Adolfo Ceretti e alla docente di diritto penale Claudia Mazzucato cominciarono a elaborare degli incontri tra vittime, familiari di vittime e ex-brigatisti (di cui si parla ne Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto, Il Saggiatore, 2015, ndr.). Sognavo la possibilità di poter chiedere scusa per quello che avevo fatto e per il dolore che avevo loro provocato. La cosa incredibile è stata che, durante gli incontri, invece di freddezza, diffidenza e magari rabbia – sentimenti legittimi – ho trovato riconoscimento in quanto persona. Non solo. Nell’arco degli anni, da questa serie di incontri, sono arrivato a stringere rapporti di vera e profonda amicizia, prima di tutto con Agnese Moro. Ricordo ancora il nostro primo incontro: mi invitò a casa sua e le portai una piantina. Parlammo tanto. A un certo punto le dissi che poteva chiedermi qualunque cosa. Non mi chiese del passato ma voleva che le parlassi della mia famiglia, dell’impegno sociale che portavo avanti: le interessavo io, la vita che stavo conducendo. Agnese ama ripetere che ogni persona ha il diritto a essere riconosciuta nella sua dignità. Il percorso della giustizia riparativa mi ha dato proprio questo: di essere riconosciuto come persona, con le sue debolezze, fragilità e la sua dignità».

– Che cosa ha ricevuto da questo percorso durato anni?

«Ho ricevuto una grandissima lezione di vita. Nel percorso della giustizia riparativa mi sono trovato a dover rispondere personalmente delle mie azioni. Io e i miei compagni eravamo abituati alla responsabilità collettiva: dietro il gruppo ci si giustificava, ci si nascondeva. Dopo la fine della lotta armata, quando inizi a pensare alle vittime, al dolore provocato, alle famiglie coinvolte, ti porti dietro un senso di colpa immenso. Accettare l’incontro con le vittime mi ha permesso di affrontare questo macigno, di assumermi le mie responsabilità e di guardare avanti. Man mano che procedevo, prendevo più consapevolezza di me, dei miei limiti; cominciavo a interrogarmi e confrontarmi con quella ricerca di delicatezza che il tipo di incontro richiedeva e che a mia volta ricevevo, in termini di immenso rispetto e di riconoscimento non politico ma umano. Questo percorso è stato un passaggio epocale nella mia vita».

– Da diversi anni insieme ad Agnese Moro dà la sua testimonianza in primis ai ragazzi e ragazze nelle scuole. Che cosa anima questo suo impegno?

«Attraverso il percorso fatto è come se mi fosse stata donata una seconda vita, e allora mi sono detto: devo usarla al meglio! Voglio mettermi al servizio degli altri, prima di tutto dei giovani. Dopo aver ascoltato le nostre testimonianze, molti ragazzi ci scrivono lettere molto belle, commoventi, che ci confermano che le nostre vite sono la prova che il male non è invincibile, non ha l’ultima parola. Grazie al dialogo e al confronto autentico, le nostre vite si sono aperte al futuro. Testimoniare è per me un atto di responsabilità».

– Oggi in quali progetti è coinvolto, oltre alle sempre più numerose testimonianze sul vostro percorso di giustizia riparativa?

«Quando ero al carcere di San Vittore feci un corso di yoga con la maestra Gabriella Cella, ideatrice dello Yoga Ratna, un metodo che pone particolare attenzione all’esperienza personale del praticante. La meditazione yoga è un modo per conoscere se stessi: dentro ognuno di noi c’è una perla che ciascuno deve recuperare; attraverso un lavoro sul proprio corpo, respiro, si va a riscoprire e a tirare fuori il meglio che tutti abbiamo dentro. Quell’esperienza mi ha segnato al punto che dopo diversi anni, su incoraggiamento della maestra Cella e di alcuni suoi allievi, ho frequentato la Scuola insegnanti Yoga Ratna (Siyr). Nella ricerca per scrivere la mia tesina finale, ho scoperto la storia della riforma del carcere di Tihar a Nuova Delhi, elaborata dalla direttrice Kiran Bedi, che poneva la meditazione al centro del modello di rieducazione. In soli due anni la recidiva di quel carcere di 10.000 detenuti scese dal 70% al 10%, grazie agli effetti della meditazione, che permetteva ai detenuti di conoscersi interiormente e di comprendere gli errori compiuti. Oggi vorrei portare avanti questo discorso nelle nostre carceri. Purtroppo, il lockdown ha fermato questo progetto; però qualcosa si sta muovendo in collaborazione con Eduradio e altre figure professionali che operano con le carceri dell’Emilia anche sul tema della giustizia riparativa. Spero che presto si possa aprire un corso di yoga all’interno di una di queste carceri».