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Responsabilità, ma non scuse

«È la prima volta che le responsabilità sono riconosciute e che viene pronunciata la verità. Questo gesto ha riconosciuto la Storia e il passato, e permetterà di normalizzare le nostre relazioni e di andare avanti». Sono le parole del pastore Pascal Bataringaya, presidente della Chiesa presbiteriana del Rwanda (riportate in un articolo dal settimanale protestante francese Réforme), dopo il discorso del presidente francese Emmanuel Macron a Kigali il 28 maggio, di fronte al Memoriale del genocidio perpetrato contro i Tutsi, dove giacciono le spoglie di più di 250.000 persone. Come affermato dal presidente Paul Kagame, anche secondo il pastore le parole di Macron «hanno più valore che delle scuse», e aprono la speranza a relazioni più distese tra i due paesi dopo 27 anni (sono le parole del presidente francese) di «distanza amara, incomprensione, tentativi di riavvicinamento sinceri ma infruttuosi». Tra il 2006 e il 2009 le relazioni diplomatiche tra i due paesi si erano interrotte, perché la Francia aveva aperto le porte a diverse persone sospettate di genocidio, e dal 2015 non c’è più un ambasciatore francese.

Le tanto attese scuse ufficiali per le responsabilità nel massacro che nel 1994 devastò il paese causando più di 800.000 morti, che si sarebbero aggiunte a quelle di altre nazioni, Stati Uniti, Canada, Belgio, Vaticano e Nazioni Unite, non sono arrivate. Macron ha spiegato che il “riconoscimento dei fatti” è più appropriato di una “richiesta di scuse”, ma c’è stata una certa delusione da parte di esponenti politici e organizzazioni. Egide Nkuranga, presidente della principale associazione di sopravvissuti, Ibuka (fondata a Bruxelles, con sedi anche in Italia, Svizzera, Olanda, Francia e ovviamente Ruanda) si è rammaricato che Macron non abbia «presentato chiaramente delle scuse a nome dello Stato francese, né chiesto perdono». Ma ha riconosciuto anche che «ha davvero cercato di spiegare il genocidio e la responsabilità della Francia. Questo è molto importante, significa che ci capisce».

In verità già Nicolas Sarkozy, unico presidente francese a recarsi a Kigali dopo il genocidio, nel 2010, aveva riconosciuto i «gravi errori» compiuti dal suo paese, ma ora sembra esserci la volontà, possiamo dire la necessità, di fare un passo avanti: Pascal Bataringaya ha interpretato lincontro del presidente francese con i giovani ruandesi come la volontà di «avanzare insieme verso lavvenire, senza cancellare il passato, poiché, come ha detto, non si può vivere dopo il genocidio ma bisogna convivere con esso».

Nel suo discorso, assicurando che nessuna persona sospettata di crimini sfuggirà alla giustizia, Macron ha detto: «Presentandomi, con umiltà e rispetto, al vostro fianco, vengo a riconoscere le nostre responsabilità», pur affermando che la Francia «non è stata complice», e chiedendo ai sopravvissuti, a coloro che hanno «attraversato la notte» del genocidio, di «farci il dono di perdonarci».

L’incontro fra i presidenti dei due paesi segue di un paio di settimane la visita del capo di stato ruandese a Parigi, ma soprattutto arriva poco dopo la conclusione del rapporto della commissione indipendente guidata dallo storico Vincent Duclert (voluta dallo stesso Macron), che alla fine di marzo ha sottolineato le gravi responsabilità della Francia nel genocidio del 1994, ma più nel senso di una “omissione di intervento” (legata anche alla “cecità” del governo di allora di fronte alla deriva razzista e violenta del governo hutu sostenuto da Parigi), che di vera e propria complicità con le violenze del regime. Una maggiore responsabilità in questo senso l’ha individuata un altro rapporto appena uscito, questa volta commissionato dal Ruanda e pubblicato da uno studio legale americano, Levy Firestone Muse, che parla di una “collaborazione indispensabile”, ma (anche qui) non di complicità.

Come ha ammesso lo stesso Macron nel suo discorso, «volendo ostacolare un conflitto regionale o una guerra civile [la Francia] è restata di fatto a fianco di un regime genocidiario. Ignorando gli allarmi degli osservatori più lucidi, si è assunta una responsabilità schiacciante in un meccanismo che ha portato al peggio, proprio a ciò che stava cercando di evitare».

Intanto, la ricostruzione dei rapporti passa anche dal tentativo di riaprire un “Centro culturale francofono”, istituzione che era stata chiusa all’indomani dei massacri, insieme alla scuola internazionale e alla radio, in questa ex-colonia belga (dagli anni Venti al 1962, la cui infausta eredità di segregazione ha favorito il conflitto tra la maggioranza hutu e la minoranza tutsi), che ha progressivamente abbandonato il francese a favore dell’inglese, diventato lingua ufficiale scolastica e universitaria nel 2008, e sempre più usato anche a livello commerciale e politico.

Non basta però un cambiamento di lingua per sradicare un passato di soprusi: le chiese e Amnesty International denunciano violazioni dei diritti umani e l’autoritarismo di Kagame, presidente dal 2000, con un’opposizione politica praticamente inesistente e il soffocamento dell’informazione giornalistica (chiusure di giornali e uccisioni di giornalisti).