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Il calcio una storia che ne contiene tante altre

Se miglior giocatore di un torneo viene proclamato un portiere, e ciò avviene anche grazie ai calci di rigore che ha parato (in semifinale e finale), si palesa con chiarezza il carattere di un gioco che consiste nel mettere alla prova la sorte, il caso, puntando sul ragionamento, sulla tecnica, tattica concentrazione. Eppure la buona e la mala sorte stanno in agguato sempre, e dicono la loro, con esiti ovviamente diversi a seconda dei punti di vista.

 

Il Campionato Europeo conclusosi ieri sera è emblematico: specchio, come sempre lo è il calcio, delle nostre esistenze e delle nostre società, è arrivato a noi quasi insperato, dopo un anno e mezzo di vita condotta nel segno dell’isolamento. Per molti mesi il calcio era stato di compagnia nelle case d’Italia e d’Europa, giocato senza pubblico, spettrale, quasi silenzioso eccezion fatta per indicazioni tecniche e grossolani improperi dalle panchine; calcio visto in tv, come già stava avvenendo da anni (in abbonamento, però, a condizione di poterselo permettere). Il ritorno del pubblico è stato regolato in maniera diversa e, per certi aspetti, sconsiderata. Maggiori limitazioni inizialmente a Roma nel numero di spettatori, via via sempre più folto: impressionanti le tribune di Budapest e poi di Wembley, ma vogliamo mettere? la finale? Chi avrebbe pensato di fare diversamente? Speriamo che i numeri della pandemia non risentano nel giro di pochi giorni di questi assembramenti – e dei festeggiamenti di questa notte.

 

E così, appunto, torniamo all’imponderabile: varie partite decise con i rigori, infortuni ricorrenti dopo una stagione e mezza senza tregua, con giocatori spremuti e allenamenti “saltati” per positività, contagi e quarantene. Una condizione inevitabile, di fronte alla quale il calcio ha aiutato a resistere, e, come sempre, si è rivelato specchio e metafora delle nostre vite. Un mondo ritenuto finto perché pieno di quattrini, divismo, pettegolezzi, a volte mostra tuttavia il proprio lato umano: gli stessi protagonisti, eroi e miti postmoderni, rivelano le proprie debolezze. Il danese Eriksen, ben noto perché gioca in Italia, si accascia in preda a crisi cardiaca grave, viene salvato all’ultimo, e il suo capitano (anch’egli gioca in Italia) governa con sangue freddo la situazione: evita che la lingua lo soffochi, fa schierare i colleghi a proteggere il dramma dallo sguardo morboso delle telecamere, conforta la moglie del compagno. Dopo l’arrivo delle notizie rassicuranti, però, non riesce a proseguire la partita e chiede di essere sostituito: non è un invincibile, è uno che ha tenuto il suo ruolo gestendo ottimamente un’emergenza, e per fare questo si è spremuto più che in tre partite consecutive. Non ha avuto paura di mostrare la propria fragilità, come non l’aveva avuta Francesco Totti al momento del suo ritiro.

In maniera un po’ strana si sono ricompattate delle identità nazionali: di questi tempi sono deboli per il fatto che le squadre di club sono un cocktail di nazionalità diverse. Forse per questo il Campionato Europeo è stato molto equilibrato (lo provano, appunto, i tanti incontri decisi nei supplementari e con i rigori). Il commissario tecnico Mancini ha ringiovanito la squadra, ha motivato giocatori non ancora alla grande ribalta e altri giovani interessanti si sono manifestati in altre squadre. La macchina “spettacolo” tuttavia circola nelle coppe europee (e non basta, se alcune società volevano creare una super Lega tutta loro), dove per vincere serve una grande base di capitale. Alle nazionali resta lo spirito e l’orgoglio dell’appartenenza universale, nel bene e nel male – triste vedere quasi tutti i giocatori inglesi, pur comprensibilmente delusi, sfilarsi la medaglia del 2° posto appena ricevuta dalle autorità; eppure poco più di un mese fa, il tecnico, anch’egli pur deluso, del Manchester City, favorito e sconfitto nella finale di Champions League, aveva baciato quella stessa medaglia e solo un giocatore se l’era sfilata (ma aveva commesso lui l’errore che fece vincere la squadra avversaria, lo si può capire…). Quella del catalano Guardiola e dei suoi giocatori del Manchester era stata una grande lezione di sportività. Non tutti l’hanno capita, quando è in ballo l’orgoglio nazionale si agita il meglio e il peggio.

Nelle note tristi anche l’atteggiamento della squadra italiana rispetto alla procedura dell’“inginocchiarsi” in segno di solidarietà con il movimento Black lives metter. I gesti simbolici devono parlare chiaramente, soprattutto quelli che vanno sotto gli occhi di milioni di persone. O si fa, o non si fa. Inginocchiarsi in segno di rispetto verso la squadra avversaria è questione di cortesia, ma la cortesia si manifesta giocando lealmente; non la cortesia con la squadra avversaria che deve essere portata all’attenzione del mondo, bensì una rivendicazione civile e le difficoltà di vita di una gran fetta della popolazione di colore negli Usa. Se si fa un gesto, si fa “senza aggettivi”, oppure non si fa; se si ritiene di dovere spiegare perché lo si è fatto, lo si svuota di significato e soprattutto della sua icastica immediatezza. È come quando tocca spiegare la barzelletta che abbiamo appena raccontata: o è di scarso valore di per sé (e la sensibilizzazione che chiedono gli afroamericani non è invece cosa da poco), oppure… l’abbiamo raccontata male.

Con i piedi, con le manone del portiere, con i muscoli abbiamo seguito una storia raccontata “bene”, e abbiamo visto che questa storia (agonistica) può contenerne altre: non bastano i piedi buoni e la tattica per raccontarle tutte. Servono persone, in campo, in tribuna (fatti salvi i rischi da Covid), a casa, che continuino a raccontare, anche a chi vive ed è sempre vissuto senza calcio, magari perché ne è stato privato a forza, o perché, sempre a forza, è stato privato di elementi fondamentali, a partire dalla pace e dal sostentamento, da acqua, cibo e salute, e da un lavoro, possibilmente, anche meno fantasmagorico. Possono farlo e sanno farlo anche i calciatori: chiediamo loro di continuare.

 
Foto di Marco Verch