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Nel mezzo della COP26

Rimandata di un anno per via della pandemia, è finalmente arrivata la COP26, il summit internazionale che riunisce i leader globali con l’obiettivo di stendere decisioni comuni per contrastare la crisi climatica. L’anno di ritardo è stato particolarmente traumatico, visto che il tempo a disposizione per agire in modo significativo sta irrimediabilmente scadendo.

La data di inizio è stata il 31 ottobre e la conclusione è prevista il 12 novembre, ma  è probabile che i lavori proseguano oltre, vista la particolare struttura di questo evento. Anche quest’anno, come in quelli scorsi, i primi giorni hanno visto i principali leader del pianeta (tranne alcune pesanti assenze) impegnati soprattutto ad esporre e proporre nuovi piani a lungo termine. Poste queste basi, sul luogo restano funzionari e rappresentanti dei singoli paesi, impegnati in complesse trattative per tradurre in termini concreti gli annunci iniziali. Spesso in passato questi colloqui si sono protratti per qualche giorno in più, rispetto alla chiusura preannunciata.

Ora ci troviamo quindi a metà dell’incontro. Come sta andando?

La risposta è ancora piuttosto difficile.

In molti hanno criticato, anche pesantemente, gli impegni emersi durante la prima fase, giudicati di gran lunga inferiori alla sufficienza. Greta Thunberg, la giovane attivista che ha ispirato il movimento Fridays For Future, ha già definito la conferenza “un fallimento”, ma non è la sola, viste le intense proteste organizzate nella città scozzese nel fine settimana. Ancora una volta, bisogna notare, queste manifestazioni hanno portato a numerosi arresti: sarebbero stati 22, non una novità per le manifestazioni climatiche nel Regno Unito, le cui forze di polizia hanno spesso reagito con durezza di fronte questo tipo di eventi.

L’esclusione degli attivisti dalla città nei primi giorni, per ragioni dichiarate di sicurezza, ha senz’altro trovato un ampio dissenso, anche tra chi ha poi accolto con favore gli impegni che i governi mondiali hanno annunciato in loro assenza.

Questi impegni includono i traguardi rispettivamente del 2060 e del 2070 per il raggiungimento della “neutralità carbonica” da parte di Cina e India, la riduzione del 30% delle emissioni di metano entro il 2030 per 100 paesi, lo stop alla deforestazione entro lo stesso anno per 110 nazioni, l’abbandono condiviso del carbone e dei finanziamenti ai combustibili fossili da parte di molte banche centrali.

Sono traguardi soddisfacenti? Davvero difficile dirlo. Molti hanno criticato l’orizzonte lontano degli impegni indiani, ma c’è chi invece lo ha accolto con ottimismo, considerando la stazza del paese e la sua produzione attuale di gas serra. Le promesse riguardo al metano sono forse modeste, ma d’altro canto accolgono finalmente gli accorati appelli della scienza climatica in questo senso. Lo stesso si può dire per la deforestazione e per gli altri punti messi nero su bianco.

Ambigua anche la lettura di un rapporto dell’Agenzia Internazionale per l’Energia, dove vengono proiettati alla fine del secolo i nuovi obiettivi annunciati. Se venissero implementati (e questo “se” viene messo in primo piano dall’agenzia) porterebbero ad un aumento massimo di temperature medie globali rispetto al periodo pre-industriale di 1.8 gradi. Si tratterebbe di un netto miglioramento rispetto alle proiezioni antecedenti alla COP26, ma rimane comunque una cifra superiore all’1,5 indicato dai ricercatori come soglia da non superare.

I negoziatori hanno ancora alcuni giorni a disposizione per tracciare la linea delle politiche globali per il clima. Forse ci basteranno per capire se siamo di fronte ad un nuovo fallimento, o se il mondo ha finalmente imboccato la strada giusta.