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Freddie Mercury. Eppure il vento soffia ancora

Buon compleanno Re della canzone! O meglio Regina dei Queen! Il 24 novembre del 1991 moriva Freddie Mercury, nato Farrokh Bulsara a Zanzibar il 5 settembre 1946 e morto a Londra il 24 novembre 1991 «per colpa» di una malattia, un virus, che allora come oggi preoccupava il mondo. Una malattia mai debellata, seppur oggi non più mortale: l’Aids. 

«Per colpa» dell’Aids è morto Mercury, perché allora essere affetti dalla malattia era una colpa, l’Hiv era considerato un virus immorale. 

Un concetto ignobile, utile a far morire due volte le persone, la prima morte era quella dell’anima che avveniva ancora in vita. 

Cantautore, compositore, musicista e polistrumentista britannico con origini parsi (comunità zoroastriana di Persia, emigrata in India nell’Ottavo secolo, dopo l’invasione arabo-islamica), Mercury era un personaggio eccentrico e anticonformista. 

Il giovane Farrock ben presto conquista l’ambito musicale per il suo timbro vocale e per la sua estensione e intonazione. Un’eredità infantile che porterà con sé anche quando la famiglia si trasferirà adolescente in Inghilterra e dove prima dei Queen condividerà con diverse formazioni musicali.  

Omosessuale, Freddie non nasconde mai la sua dimensione spirituale e umana, anzi ne ostenta le virtù e impone la sua visione del mondo a coloro che sceglieranno di stargli vicino (anche alla sua famiglia), così farà con i suoi colleghi musicisti e con il suo amato pubblico, i suoi fan. 

«Chi mi ama mi segua – sembra voler dire -, chi non mi ama resti pure indietro; dovrà correre in futuro». 

E sono stati davvero in molti ad amarlo e a seguirlo allora, milioni in tutto il mondo. Pochi i costretti oggi a dovere correre! L’eredità di Mercury è ormai una certezza acclarata.

Chi non lo amava ne era attratto, affascinato, incuriosito dalle provocazioni, dallo stile. Un po’ come avveniva in Italia allora su «mamma Rai» quando impazzavano le canzoni e i video di Renato Zero

La sensualità Mercury era una forza propulsiva, la sua cifra stilistica. Un tratto che l’artista trasferiva anche alle corde vocali. La sua presenza scenica e umana, una calamita per molti. Freddie non era semplicemente una star da seguire o da emulare, era un musicista dal quale imparare. 

Un professionista paroliere e strumentista raro, prezioso, a tratti geniale. Un certosino maniacale. 

Documentari postumi ne ripercorrono la storia (scavalcando la dimensione privata e legata al gossip e al personaggio pubblico) e ne fanno emergere le doti umane, professionali e musicali, raccontano la dovizia e la cura quasi scientifica e matematica che Mercury metteva nel suo lavoro e che al tempo stesso pretendeva negli studi di registrazione dai tecnici del suono. 

Sempre alla ricerca della nota migliore, dell’armonizzazione più idonea, della parola più incisiva da utilizzare, la sua era una ricerca della precisione quasi patologica. 

La musica doveva essere il suo vestito, comodo da indossare e migliore da presentare. Lui doveva fiero e meritevole di poterlo indossare.

 Mercury non amava la sciatteria e quando decideva di rappresentarla, ostentarla, lo faceva con cura. Come si evince dal video I want to break free  dove in ciabatte e in dosso una gonna e una maglia aderente (immancabili i suoi baffi, da sotto i quali ridendo si è sempre preso gioco di noi) è intento a passare l’aspirapolvere in una casa disordinatamente ordinata. 

Ostentando però la sua virilità, il suo essere maschio a petto nudo e con pantaloni aderenti in pelle. Un viaggio verso il «paradiso»: un mondo dove scivolare, abbandonarsi libero e leggero, come un angelo tra le braccia di altri angeli, tra persone che lo accolgono e lo ricevono in volo senza farlo cadere, che lo accompagnano  «zooroastrianamente» nella sua lotta tra i bene e il male (immagine che richiama anche l’esodo biblico) e dove l’umanità è lei stessa un Dio che indica la salvezza e la luce tra fari accesi incastonati in un mare di caschetti protettivi che infrangono il buio. Un tappeto di umanità, di minatori che nell’oscurità accompagnano i Queen verso la libertà fuori dal tunnel della vita. 

Come tutti i cantanti pop, al contrario di Pavarotti che scelse di «diventare “pop”» per le sue battaglie umanitarie, Mercury ottenne il riconoscimento ufficiale dai palati più fini e dai critici musicali quando (era il suo sogno nel cassetto sin da bambino) esegue la canzone Barcelona con la cantante lirica Montserrat Caballé.

Per i più (la maggioranza pressoché assoluta) si trattò di una riconferma del valore canoro e artistico di mercuri.

Il carismatico frontman del gruppo dei Quenn è il protagonista di Queen: Days of Our Lives, il documentario che ripercorre – attraverso immagini d’archivio, interviste e filmati rari – le vite di quattro uomini che hanno profondamente influenzato la musica pop del Ventesimo secolo e oltre. La prima parte narra gli esordi negli anni ‘70: la popolarità di Freddie Mercury, Brian May, Roger Taylor e John Deacon.

Caro Freddie: We will rock you!