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La musica più forte della deportazione

«Ormai non sono più io che vado in cerca di partiture, sono loro che cercano, e mi trovano». Francesco Lotoro, pianista, compositore e docente al Conservatorio di Bari, da trent’anni ricerca brani musicali composti nei Lager e nei Gulag, da autori perseguitati, deportati, e prima ancora messi nell’impossibilità di esibirsi perché ebrei o oppositori politici. Una vera e propria missione, che l’ha portato a repertoriare oltre 8000 partiture, il cui racconto è ora contenuto in molte registrazioni e nel libro Un canto salverà il mondo. 1933-1953: la musica sopravvissuta alla deportazione (Feltrinelli, 2022). Avevamo presentato anni fa l’Istituto di Letteratura musicale concentrazionaria, oggi diventato Fondazione.

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«Se è vero – ci dice – che ancora oggi scopro una partitura ogni settimana, si ha l’idea del fatto che un lavoro del genere non fosse mai stato fatto: la tecnologia, da questo punto di vista, mi sta dando una grande mano; oggi posso sapere in tempo reale che in una biblioteca di Amburgo, Londra o Tel Aviv c’è un determinato materiale; ma d’altra parte non c’è mai stata una visione sinottica, complessiva di questa letteratura musicale. E non parlo solo di provenienza ebraica dei materiali: la “produzione musicale concentrazionaria” ha più ampie coordinate, solo parzialmente coincidenti con la guerra e con il periodo nazista. Quella specie di “agganciamento” che io faccio tra la fenomenologia deportatoria nazionalsocialista e quella dell’universo dei Gulag non è frutto di una scelta arbitraria. Ho ritenuto che a un certo punto le dinamiche presentassero dei tratti comuni, e che quindi convenisse trattarle insieme, anche se il fenomeno Gulag gode finora di minor conoscenza. Ho pensato quindi che la musica (ma anche ciò che le sta intorno: cabaret, varietà, teatro, materiali fonografici) unisse questi due emisferi della fenomenologia deportatoria».

– Un lavoro, quindi, che sembra non finire mai…

«Più si va avanti e più ci si accorge, dopo 33 anni di lavoro, che c’è altro materiale da ricuperare. Certo, con un adeguato supporto economico forse si sarebbe potuto fare tutto questo lavoro nella metà del tempo; ora forse il Covid allenta la presa e potrò ricominciare a viaggiare: ho ancora dei “sopravvissuti” da incontrare, quelli relativamente più giovani, ma anch’essi un giorno ci lasceranno; potrò incontrare figli e nipoti, più o meno della mia età [classe 1964, nda] che magari mi mandano un file pdf di un manoscritto, in pochi minuti. I materiali ci sono e arrivano, qualcuno trova il mio nome legato a documentari messi in onda da televisioni varie e mi manda dei materiali».

– Il suo lavoro parte dall’ambiente della musica ebraica ma va molto oltre…

«In questa ricerca non si dovrebbero mettere dei “bilanciamenti di sorta” né preclusioni: per questo indago anche la musica nata nei Gulag: anche se finora non c’è stato un equivalente del processo di Norimberga per i crimini staliniani, le persone che li hanno ideati devono rispondere all’umanità di pianificazione dello sterminio, tanto quanto i nazisti. A questa ricerca perciò bisogna approcciarsi prendendo come unità di misura la condizione di “cattività” di tutti, compresi i soldati tedeschi della Wehrmacht che furono prigionieri degli Alleati o nei Gulag. In fondo sull’Arca di Noè salirono tutti, anche gli animali molesti. Nell’attesa di un’era messianica, non si possono selezionare le persone preventivamente: dobbiamo coesistere, e la partitura dell’ebreo internato deve coesistere in una sorta di multidimensionalità con tutte le musiche composte dagli altri prigionieri. La musica ha una sua vita e per tutti gli autori bisogna avere lo stesso sentimento di pietas. Individuata la datazione, dall’apertura di Dachau (1933) alla morte di Stalin (1953), la fortuna artistica di una partitura poi la fanno il gusto e il valore intrinseco dell’opera; il ricercatore deve mettere insieme i vari pezzi di questo enorme puzzle, fatto di partiture di pregio e di pagine mediocri, opere teatrali e cabaret e poi la musica sacra. Tutto questo deve poter avere il posto che merita, anche la musica scritta sotto obbligo. Il primo brano che si menziona è il Moorsoldatenlied [canto dei soldati della palude], nato negli Emslandlager della Bassa Sassonia, dove i prigionieri erano costretti alla bonifica dei terreni paludosi; il testo si deve al poeta e sindacalista Johann Esser, la musica a Rudolf Goguel: piacque così tanto che i primi che uscirono da quei campi lo portarono nelle fila dei repubblicani spagnoli nella Guerra civile, poi lo cantarono i baschi e via dicendo. Certo, si tratta di musica nata sotto coercizione, ma poi il cervello viaggia per conto suo, e la musica anche. Tutto, nei campi, era pianificato, anche che a Birkenau l’orchestrina dei prigionieri suonasse musiche tradizionali dei paesi da cui provenivano i treni di altri condannati alla morte: le musiche per coro venivano tradotte nelle lingue delle varie nazionalità, una sorta di Unione europea ante litteram, una lezione di umanesimo di cui dovremmo fare tesoro».

rudolf_karel_nonet_on_toilette_paper_2.jpegRudolf Karel, brano scritto su carta igienica

– Nei campi si ricreò un ambiente represso nelle città?

«Esatto: nelle città occupate dai nazisti i musicisti ebrei perdevano il posto di lavoro, l’ebraico era bandito; nei Lager la lingua ebraica risuonò in musica: si ricostruì un humus ebraico negato nel resto d’Europa. In quel momento occorreva fare musica e occorreva credere: e molti chassidim mandati a gasazione intonavano il canto sull’articolo 13 dellaDichiarazione di fede di Moshè Maimonide: “Io credo con tutta la forza della mia fede che arriverà il messia; e anche se non dovesse arrivare io gli crederò”. D’altra parte mentre la Spagna sanguinava per la guerra civile, Pablo Casals la percorreva con il suo violoncello, e a chi gli dava del pazzo rispondeva: proprio in questo momento la gente ha bisogno di musica, è facile dargliela nei momenti di calma; così come è facile pregare nei momenti di calma. A Treblinka, dove avvicinandosi alla torretta di guardia si rischiava una pallottola all’istante, una donna, forse francese, si piazzò lì davanti e intonò Mamma, son tanto felice di Cesare Bixio: la musica ebbe questo potere di congelare per qualche attimo delle situazioni in cui si volevano le persone le une contro le altre. Voglio credere che essa abbia potuto aprire tantissimi varchi nei campi, sì che si rendesse un senso di umanità migliore».

– Il periodo fra le due guerre mondiali è stato ricchissimo di sperimentazioni estetiche in letteratura, nelle arti visive e nella musica: nei campi si produsse anche musica di avanguardia?

«I prigionieri nati intorno al 1880 avevano 60 anni erano figli delle grandi scuole di fine 800: Brahms, Bruckner, Mahler; poi abbiamo le generazioni intorno al 1900, quarantenni che hanno sottomano le nuove estetiche, perfino al di là della dodecafonia; ci sono quelli che scrivono musica per il cinema e per i cartoon: una parodia della canzone dei “sette nani” di W. Disney (Andiam, andiam… andiamo a lavorar…) era diventata l’inno del campo di internamento di Les Milles (Aix-en-Provence). Poi c’era gente ancora più giovane, che aveva ben presenti le scuole dell’avanguardia. Il campo, in questo senso, moltiplica il futuro, perché è isolato dalla vita “di fuori”: si guardava alle nuove idee senza quelle mediazioni del mondo musicale normale, che a volte “frena”. Nei campi si creano soluzioni di linguaggio avveniristico, anche ricuperando forme antiche come il madrigale o la forma-sonata, e il paradosso tragico è che il campo creò delle autostrade dell’ingegno e della creatività. Nella prigionia, l’uomo intraprese una lotta impari per “smantellare” la propria condizione: il prigioniero musicista non è il vate del Lager o il poeta del Gulag, non canta la cattività, ma la esorcizza giungendo a comporre partiture di una complessità linguistica incredibile, anche nella strumentazione, che si basava su mezzi a volte di fortuna. Questi musicisti erano schiacciati ogni giorno fra il rischio della propria vita e un futuro che non finiva mai».

Foto: ll maestro Lo Toro con i ragazzi della Orchestra giovanile Israeliana a Gerusalemme