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L’eclisse dei profeti e la chiamata di Dio a essere suoi testimoni

«Nessun profeta ardisce più rivelarci il nostro domani, e questa, l’eclissi dei profeti, è una medicina amara ma necessaria. Il domani dobbiamo costruircelo noi, alla cieca, a tentoni; costruirlo dalle radici, senza cedere alla tentazione di ricomporre i cocci degli idoli frantumati, e senza costruircene di nuovi». È una frase tratta da: L’altrui mestiere, una raccolta di articoli di Primo Levi, il quale aveva vissuto il crollo degl’idoli sulla sua pelle, nel campo di Auschwitz, insieme a migliaia di altre persone. Scrisse questa frase una quarantina d’anni dopo quell’esperienza, riferendosi alla situazione generale in Europa negli anni ‘80 del secolo scorso, quando tutti i grandi ideali cominciavano a svuotarsi di significato e a crollare, sia quelli vecchi (la patria, la nazione) sia quelli nuovi, universali (la democrazia, la giustizia sociale, il comunismo, la socialdemocrazia).

Ciò che aveva fatto sognare e lottare masse di persone stava vacillando – non per l’arrivo di ideali nuovi e migliori, ma appunto per il venir meno della fede in qualcosa che non fosse già in vista e a portata di mano. Si andava verso un apparente miglioramento costante e indefinito dell’esistente, senza più anelito a un futuro radicalmente diverso – e l’esistente era propagandato come una pace che si sarebbe estesa al mondo intero, sotto minaccia nucleare. I profeti, in tutto ciò, non avevano posto. Annunciando questa “eclissi dei profeti”, Primo Levi rivelava la condizione di povertà umana e spirituale in cui in realtà si era. I profeti sono eclissati perché mettono in luce i cocci degl’idoli frantumati, la miseria umana e la lontananza di Dio, chiamando il mondo alle sue responsabilità.

Di Geremia si narra che aveva comprato una brocca di terracotta, aveva convocato anziani e sacerdoti del Tempio e aveva frantumato la brocca davanti a loro, dicendo che Gerusalemme sarebbe stata ridotta così, dopo che i giudei, sperando in alleanze con i popoli circostanti e in una loro protezione, ne avevano abbracciato le credenze. A quel tempo il regno di Giuda era totalmente coinvolto nelle contese fra i grandi imperi dell’epoca. Proprio allora, le strutture vigenti fino a poco tempo prima cominciarono a vacillare, fino poi a crollare. Secondo Geremia, Gerusalemme sarebbe caduta nelle mani di Babilonia, e quello che ne sarebbe rimasto sarebbe stato come il vaso da lui spezzato, come un vaso «che non si può più riparare». Come i cocci degl’idoli frantumati, avrebbe detto Primo Levi.

Un alto sacerdote del Tempio fa mettere Geremia in prigione: un modo per screditarlo, per renderne innocue le parole. I suoi discorsi non erano graditi alle classi dirigenti del momento. Ed è qui che si colloca il suo lamento. La profezia diventa una dolorosa preghiera. Geremia si rivolge a Dio, esprimendogli tutto il suo tormento: ha profetizzato quel che il Signore voleva, ma ciò lo ha fatto diventare agli occhi di tutti «un oggetto di scherno», da deridere, di cui farsi beffe. Sembra il solo risultato ottenuto dalla sua coraggiosa e fedele predicazione della Parola di Dio.

Geremia non usa mezzi termini nel rivolgersi a Dio. Le nostre traduzioni addolciscono il suo parlare, ma in realtà sta dicendo: «Tu mi hai sedotto, Signore», come si seduce una ragazza, «e io mi sono lasciato sedurre. Tu mi hai violentato e mi hai vinto». Per questo continua: «Io sono diventato ogni giorno un oggetto di scherno, ognuno si fa beffe di me», come all’epoca avveniva a una ragazza che si fosse lasciata disonorare. Geremia si rivolge a Dio come a uno che lo abbia “sedotto e abbandonato”. La Parola stessa del Signore diventa alle orecchie del popolo un obbrobrio, un motivo di vergogna, perché ciò che Geremia predica non è: pace, benessere, prosperità, ma «violenza e saccheggio», è l’annuncio di ciò che di lì a breve sarebbe capitato al suo popolo. Ecco perché bisognava far tacere quel profeta, screditarlo, farne un buffone o un malfattore: la sua predicazione era un giudizio che colpiva direttamente la classe dirigente d’Israele.

In tutto ciò, possiamo intravedere quello che accadrà a Gesù – che nella sua vicenda terrena, subirà lo stesso trattamento: i suoi gesti e la sua predicazione della Parola di Dio non saranno graditi ai dirigenti religiosi d’Israele. Alla fine, per Geremia ci sarà l’esilio, per Gesù la croce, dalla quale si rivolgerà a Dio in termini molto simili a quelli di Geremia: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Entrambi moriranno coperti di vergogna agli occhi del mondo; ma in seguito, entrambi saranno riconosciuti, grazie a Dio, come veri annunciatori della Parola del Signore, dell’unica Parola di salvezza.

C’è un punto rilevante nel lamento di Geremia (20, 7-11): «Se dico: “Non lo menzionerò più, non parlerò più nel suo nome”, c’è nel mio cuore come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzo di contenerlo, ma non posso». Se anche decidesse di tenere la bocca chiusa, il sacro fuoco della Parola di Dio continuerebbe ad ardere nel cuore e nelle ossa di Geremia: egli resterebbe un profeta. Non è lui a decidere di che cosa le sue parole o il suo silenzio testimoniano: è Dio a scegliere i suoi inviati, a decidere in chi e come testimoniarsi.

Dopo l’esperienza del Lager, Primo Levi continuò a definirsi un non credente perché non poteva conciliare l’idea dell’esistenza di un Dio buono con quella disumana esperienza. Eppure i suoi scritti restano profetici, rivelano all’umanità ciò che essa può provare a essere, a tentoni e con umiltà, e ciò che invece non potrà mai essere; e il rischio di credere che Dio sia “con noi” quando un’idea viene diffusa ai quattro venti da megafoni e televisioni e diventa “di moda” perché promette benessere, non però giustizia. Spesso queste idee diventano idoli che prima o poi crollano.

Oggi, nello spaventoso conflitto fra Ucraina e Russia, l’Occidente, con i suoi valori, si posiziona acriticamente nel campo del “bene”, come peraltro fa la Russia. E guai a chi critica l’attuale posizione sul proprio versante, mostrandone i limiti, i rischi e le falsità: si passa per disertori dell’alleanza e dei valori occidentali, o di quelli della Madre Russia, e si viene messi all’angolo. Geremia riesce a dire: «Il Signore è con me come un potente eroe», non quando le sue idee vincono, bensì quando nessuno lo ascolta, tutti lo hanno abbandonato ed è gettato in prigione: quando è profeta solo agli occhi di Dio. È un esempio di “eclissi dei profeti”, come diceva Primo Levi, che a partire dalla sua terribile esperienza, metteva in guardia da ogni idolo umano, perché l’umanità fosse salvata e non sommersa.

Non siamo noi a decidere di chi stiamo testimoniando. È Dio stesso a prendere i nostri gesti, le nostre parole, i nostri silenzi, per testimoniarvi i suoi gesti, i suoi silenzi, la sua Parola, e avvincerci a sé. Noi possiamo soltanto cercare di costruire il domani «senza cedere alla tentazione di ricomporre i cocci degl’idoli frantumati, e senza costruircene di nuovi», consci dei limiti e della fragilità di quanto costruiamo, ma fidando in Dio che ci vuole testimoni della sua Parola.

 

Foto di Frans Vandewalle: il profeta Geremia, Cappella Sistina