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Le ultime parole di Gesù

Riproponiamo di seguito la riflessione del pastore Luca Baratto mandata in onda nella rubrica del Culto evangelico di Venerdì santo che, diversamente da quanto annunciato nella puntata di domenica 10 aprile, non è andato in onda alle 6.35, bensì alle 5.35 su RAI Radio1.​

Oggi è Venerdì santo e anche noi, come tutti i cristiani in questo giorno, ci soffermiamo a riflettere su quanto le Scritture dicono della morte di Gesù. Non solo quello che dicono i Vangeli ma l’intera Scrittura perché i racconti della Passione sono disseminati di citazioni dell’Antico Testamento che ci offrono la chiave per capire ciò che succede.

Il testo che vi propongo si trova nel Vangelo secondo Marco ed è quello che riporta le ultimissime parole di Gesù, quelle che il Signore pronuncia prima di morire. È una scelta precisa perché i Vangeli ci offrono tre diverse versioni delle ultime parole di Gesù. 

Nel Vangelo secondo Luca Gesù se ne va dicendo: “Padre, nelle tue mani rimetto il mio spirito”. Sono le parole di un profeta che confida fino all’ultimo nella forza dell’amore e sa che la sua vita non è alla mercé dei suoi persecutori, bensì è sicura nelle mani del Padre. 

In Giovanni, invece, prima di morire Gesù dice: “È compiuto”. È la voce di chi vede il concludersi e il compiersi di una missione; di chi ha sempre saputo che il momento della sua gloria sarebbe coinciso con quello della sua più grande umiliazione. 

Nel Vangelo secondo Marco, seguito da Matteo, le ultime parole di Gesù sono invece un grido, in cui sembrano mischiarsi fede, angoscia e solitudine: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”. Saranno queste parole a guidare il nostro cammino insieme questa mattina.

Venuta l’ora sesta, si fecero tenebre su tutto il paese, fino all’ora nona. All’ora nona, Gesù gridò a gran voce: ‘Eloì, Eloì lamà sabactàni?’ che, tradotto, vuol dire: ‘Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?’ Alcuni dei presenti, udito ciò, dicevano: ‘Chiama Elia!’ Uno di loro corse e, dopo aver inzuppato d’aceto una spugna, la pose in cima a una canna e gli diede da bere, dicendo: ‘Aspettate, vediamo se Elia viene a farlo scendere’. E Gesù, emesso un gran grido, rese lo spirito”, (Marco 15, 33-37).

La versione di Marco, il vangelo più antico, e di Matteo, che ne segue fedelmente la struttura portante, è forse quella più conosciuta e volta a sottolineare la solitudine dell’ultimo momento di Gesù. 

In effetti, l’intero racconto della passione di Marco e Matteo convoglia questo senso di abbandono: Gesù è solo! L’ostilità lo accerchia! Il Cireneo che porta la sua croce lo fa perché obbligato, non per gesto caritatevole; chi gli è vicino lo ricopre di insulti e di scherno; persino i due ladroni che sono inchiodati con lui, pur condividendone il supplizio, si uniscono alla derisione, come se fossero degli spettatori; nessuno dei suoi discepoli gli è vicino; le donne che lo piangono sono lontane. 

Gesù è solo ed è anche silenzioso, non parla con nessuno, non apre bocca davanti ai suoi torturatori. Una solitudine e un silenzio consapevoli. Gesù, infatti, rimane lucido fino alla fine: rifiuta l’offerta di vino misto a mirra, un anestetico che lo avrebbe inebetito per alleviare il dolore e le sofferenze. Solo, muto e consapevole. Così se ne va Gesù.

Per capire appieno la solitudine di quest’ora, è necessario soffermarsi sul motivo della derisione che accompagna Gesù. I capi sacerdoti e gli scribi, ci dicono Marco e Matteo, si fanno beffe di lui dicendo: “Ha salvato altri e non può salvare se stesso. Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, affinché vediamo e crediamo!”. Questo è il punto. Lo scherno nasce dalla contrapposizione delle pretese di Gesù e dei suoi discepoli che vedevano in lui il Figlio di Dio, il liberatore e il Messia atteso, e invece la sua fine misera sulla croce. 

Le torture che subisce, il supplizio a cui è sottoposto senza che nulla accada, senza che Dio venga in suo soccorso, sono la conferma che il Signore non è con lui, che le rivendicazioni di Gesù erano false, la sua reclamata vicinanza a Dio una bestemmia, e, soprattutto che la condanna subita era giusta. E allora, mano a mano che il tempo passa e diventa chiaro che Gesù sta soccombendo, i suoi carnefici si rilassano, riprendono animo, si sentono confermati nelle decisioni prese. Dio non interviene, allora avevamo ragione! Si congratulano con se stessi e si lasciano andare al compiacimento della violenza che viene inflitta alla loro vittima.

Tuttavia, la cosa interessante è che l’idea che il Messia non possa essere confitto perché Dio è con lui – e se invece lo è significa che è un bugiardo e un bestemmiatore – non appartiene solo ai nemici di Gesù! È condivisa anche dai suoi amici, dai suoi discepoli. Com’è possibile che Gesù debba passare attraverso la morte? Com’è possibile che il Santo di Dio venga umiliato e sconfitto in modo così clamoroso? Com’è possibile tutto questo? Anche i discepoli se lo chiedono.

E per rispondere a queste angosciose domande cosa fanno? Fanno quello che qualunque fedele credente israelita farebbe: interrogano le Scritture che non li deludono. In esse trovano una risposta. Trovano la descrizione della sofferenza del giusto; scoprono testi che parlano di persone umiliate, perseguitate e addirittura portate al macello, non sebbene fossero dei giusti, ma proprio perché erano dei giusti. 

Scoprono i canti del Servo del Signore nel libro del profeta Isaia, che abbiamo citato all’inizio di questa predicazione, un personaggio non identificato che incarna così la sua fedeltà a Dio: “Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la bocca. Come l’agnello condotto al mattatoio, come la pecora muta davanti a chi la tosa, egli non aprì la bocca – proprio come Gesù in Matteo e in Marco che rimane muto davanti ai suoi aguzzini –. Gli avevano assegnato la sepoltura fra gli empi, ma nella sua morte, egli è stato con il ricco”. Non si tratta di una prefigurazione o una profezia di Cristo, è invece parte di quella incredibile ricchezza che offrono le Scritture e che ha permesso ai primi cristiani di capire e interpretare l’esperienza della morte di Gesù. 

Non solo Isaia, ma nel testo della passione di Marco e Matteo troviamo altre citazioni dall’Antico testamento, precisamente dal Salmo 22 che descrive così il giusto preso di mira dai suoi nemici: “spartiscono tra loro le mie vesti e tirano a sorte la mia tunica”; è deriso con le stesse motivazioni usate contro Gesù: “Egli si affida al Signore; lo liberi dunque; lo salvi, poiché lo gradisce!”; grida a Dio con queste parole: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”, le parole di apertura del salmo. 

Anche in questo caso non si tratta di preveggenza; piuttosto, lo ripetiamo, la ricchezza delle Scritture permette ai discepoli e alle discepole di trovare una chiave interpretativa della morte di Gesù: la sua morte non è un segno della sua empietà, dal suo essere rifiutato da Dio, ma è un segno della sua fedeltà. Le parole con cui muore – Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato – sono le parole di un giusto, un giusto che muore.

Abbiamo così la chiave interpretativa della scena raccontata da Marco e da Matteo: da un lato c’è l’oscenità della violenza, la violenza dei forti che dicono: Ho ragione perché ti sto schiacciando! È la violenza di cui i potenti dispongono con le loro decisioni; che i soldati eseguono con la loro brutalità, e che riverbera su tutti gli attori in campo. Riverbera addirittura sugli altri condannati a morte che moriranno crocifissi come Gesù, ma per un momento si gloriano della possibilità di prevaricarlo e insultarlo; riverbera sulle persone comuni, gente di nessun potere, ma che è lì per unirsi al dileggio, per sentirsi anche loro forti con un debole. E riverbera sugli amici di Gesù che per paura non osano avvicinarsi. 

Dall’altro lato, abbiamo Gesù muto, inerme, che subisce senza maledire, senza invocare vendetta, senza reagire. I suoi aguzzini vedono in lui la fine di un bugiardo, un debole; non scorgono invece un Signore che non è come i Signori di questo mondo: “i prìncipi delle nazioni le signoreggiano e i grandi le sottomettono al loro dominio … il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire, e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti”. Nella sua morte vedono la sua impotenza, e non scorgono il compimento di una vita capace di donarsi agli altri.

Nelle ultime parole di Gesù riportate da Marco e da Matteo possiamo infine notare ancora un elemento: durante tutto il suo supplizio Gesù resta muto, non replica ai suoi aguzzini, non se la prende con i suoi dileggiatori. Quando parla, ha un solo interlocutore: Dio. L’unico interlocutore di Gesù è Dio; l’unica presenza, l’unico interlocutore che vale la pena invocare!

Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, sono parole pronunciate davanti a Dio, quindi preghiera; parole di fede. Non sono parole di delusione perché Dio non è intervenuto a salvarlo. No, questa è la logica dei suoi aguzzini che sanno unicamente immaginare un Dio che interviene come un vendicatore e se non interviene così, non c’è. 

Sono parole che portano davanti a Dio la voce delle vittime che muoiono in solitudine, nell’umiliazione più totale. È la domanda sulla verità e l’amore sconfitti, sulla violenza gratuita e inaudita. Porta davanti a Dio la voce delle vittime di ogni guerra, e anche delle vittime lasciate insepolte nelle strade o gettate nelle fosse comuni in Ucraina. Gesù sarebbe potuto essere uno di loro.

Le ultime parole di Gesù sulla croce sono le parole del giusto sofferente, parole di una fede biblica trepidante che porta uomini e donne a restare fino alla fine consapevoli del fatto di avere una voce e di poterla usare per farla salire fino a Dio dal buio della loro condizione. “O Signore, io grido a te da luoghi profondi” dice il salmo 130, il De Profundis. La fede di chi sa ancora di poter gridare la propria angoscia, il proprio smarrimento in faccia a Dio, che rimane l’unico vero interlocutore che valga la pena invocare. “Dio mio Dio mio perché mi hai abbandonato?”, sono parole di fede, parole consegnate a Dio perché Egli le custodisca e con esse custodisca il senso di una vita. “Ed emesso un gran grido, Gesù rese lo spirito”. Amen

Preghiera

Alcuni gridano Osanna, altri gridano crocifiggilo.

Alcuni gridano Gesù, altri gridano Barabba.

Alcuni portano la croce, altri scappano da essa.

Ad alcuni piace la luce, altri preferiscono le ombre.

Alcuni piangono, altri cospirano

Alcuni seguono, altri si nascondono

Alcuni credono, altri tradiscono

Noi oggi però decidiamo di gridare la vita,

di seguire la croce, di spezzare il pane

di mantenere la fede, di aver fiducia nell’amore

e dire al mondo intero che abbiamo scelto di seguire Gesù. Amen.

A questo link è possibile ascoltare l’intera puntata.