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Fuori dalla pandemia

 

Siamo fuori dalla pandemia? Se non ora, quando lo saremo? Vorremmo tutti una risposta, dopo oltre due anni e almeno sei milioni di vittime nel mondo. In primis vorrebbe rispondere l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), che ogni tre mesi rivaluta lo status di “pandemia” di Sars-CoV-2 e che quest’anno ha aperto una discussione fra i suoi esperti su quando e come dichiarare la fine della crisi globale. Sarebbe un momento importante, il segnale atteso, lo squillo di tromba che dà il via all’alleggerimento delle misure più restrittive (già avviato in molti paesi, Italia compresa). Per contro, il “liberi tutti” svincolerebbe dalle raccomandazioni le 196 nazioni firmatarie, le aziende farmaceutiche dagli accordi sulla produzione e la distribuzione, i grandi network globali dai programmi a tutela dell’equità di accesso a farmaci e vaccini. 

Si comprende quindi la cautela, ci si prepara ma, precisa la stessa Oms, «non è ancora il momento».

La ragione è palese: mentre contagi e decessi calano in molti luoghi, in altri risalgono, e ovunque si guarda con apprensione al comportamento delle nuove varianti del virus Sars-CoV-2, più trasmissibili e più di prima in grado di aggirare la risposta immunitaria. L’obiettivo di vaccinare il 70 per cento della popolazione mondiale entro la metà di quest’anno è ormai chiaramente fuori portata (nei paesi a reddito medio-bassi si arriva a stento al 17 per cento). Infine, la prospettiva di un’immunità di gruppo per questo virus sembra estremamente improbabile. 

In Europa i numeri hanno iniziato nuovamente a calare. In Italia la situazione negli ospedali si è stabilizzata, mentre i dati sui nuovi casi oscillano e il ministero della Salute raccomanda di tenere a mente le misure utili, come mascherine, aereazione, igiene delle mani, distanziamento. E ricorda che la copertura vaccinale completa resta per tutte le fasce d’età uno strumento necessario a mitigare l’impatto della malattia. Il messaggio è chiaro: mantenere alta l’attenzione, perché è il momento in cui si allentano le regole imposte e deve prevalere il buon senso.

Negli Usa oggi è quasi sparito l’obbligo di mascherine al chiuso, pur contando ancora oltre duemila morti a settimana. Lo stesso vale per il Regno Unito, dove si chiudono i centri per il tracciamento e l’isolamento per i positivi si trasforma in un blando stay at home. Novecento morti a settimana. 

Poi c’è la Cina. Il primo maggio complessivamente si segnalavano 10.000 nuovi casi e 48 decessi giornalieri. Eppure si testavano 3,5 milioni di persone nel distretto di Chaoyang, a Pechino, a fronte di 26 casi di infezione. Eppure Shanghai viveva in un lockdown severissimo dopo due anni di calma quasi assoluta, con le barriere nelle strade, le persone che gridavano dalle finestre perché non avevano più scorte alimentari, i droni che invitavano a non «indulgere al desiderio di libertà». Come si spiega? Nel paese ci sono molti anziani, poco vaccinati e con un vaccino meno efficace, il governo persegue a testa bassa la strategia “Covid zero” e antepone a qualsiasi ragione sociale, umanitaria ed economica la necessità di non perdere il controllo sui contagi. A ogni costo.

Questi esempi mostrano due verità. La prima è la natura politica delle misure di sanità pubblica. La scienza interpreta, chiarisce, informa e orienta, ma in un contesto di complessità e incertezza è la politica a dover dare risposta agli eventi. Il secondo è che dichiarare la fine di una pandemia è un compito a dir poco complicato. Poche malattie davvero hanno visto chiudersi il sipario, ed è il caso del vaiolo (ma ci sono voluti tremila anni). Più spesso, come ben sanno gli storici della medicina, ci può essere una fine epidemiologica dell’emergenza, quando si esauriscono i rischi dei contagi, oppure una fine sociale, quando si esaurisce la paura o le contromisure non sono più accettabili. Le due quasi mai coincidono.

Che cosa accadrà con il Covid-19? Dipenderà da vari fattori: da come riusciremo a conciliare il contrasto alla pandemia con le altre emergenze geopolitiche e ambientali. Dipenderà dalla ricerca di vaccini aggiornati e di farmaci efficaci (e accessibili, ed equamente distribuiti). Dipenderà dalla capacità di rispondere alle necessità delle persone, con piani di prevenzione adeguati e condivisi, con reti assistenziali più efficienti e più giuste. Solo allora, forse, potremo dichiarare finita l’emergenza, non a furor di popolo ma a ragion veduta, e governare davvero la nostra convivenza con il virus.