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«Il carcere è inutile, abolirlo non è utopia»

«Un aggettivo per definire il carcere? «Inutile. È un’istituzione inutile e va superata». Elisabetta Zamparutti non ha dubbi, il carcere va abolito. D’altronde, su questo tema il dibattito va avanti da tempo, prima sommessamente, poi in maniera sempre più larga (seppur minoritaria) come dimostra la nuova edizione del libro Abolire il carcere di Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta con prefazione di Gherardo Colombo e postfazione di Gustavo Zagrebelsky. Da parte sua, Zamparutti conosce molto bene la realtà carceraria in Italia e non solo. È componente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura per conto dell’Italia, oltre che tesoriera di “Nessuno tocchi Caino” e consigliera generale del Partito radicale transnazionale.

– L’abolizione del carcere viene vista da molti come una cosa assurda e invece…?

«È un progetto politico che promuove un cambio di paradigma nella concezione della giustizia del modo di dire e di fare giustizia. Come diceva Gustav Radbruch (poi ripreso da Aldo Moro), “più che cercare un diritto penale migliore dobbiamo cercare qualcosa di meglio del diritto penale”».

– Cambiare, ma in che senso?

«Mettere in discussione il giudicare, in fondo richiamandosi anche al monito biblico sul “non giudicare”, perché occorre trovare forme di giustizia diverse che più che giudicare, condannare, separare, mettere in disparte siano orientate alla riparazione. Certo si deve partire dalla verità, dalla consapevolezza del danno procurato. Più che il sistema del giudizio va concepita una forma di acquisizione della verità che porti a una riparazione. Il carcere è l’espressione più crudele, ovunque ci siano istituti penitenziari, per quanto possano essere evoluti, comunque c’è una componente punitiva prevalente che pregiudica il suo uso a fini rieducativi, nonostante quello che abbiamo scritto nella Costituzione. L’impianto è quello di una giustizia portata a infliggere altro male rispetto al male commesso. Non c’è educazione che possa venire dalla punizione. Il cambio di paradigma deve essere da un pensiero violento a un pensiero nonviolento. Coltivando una concezione nonviolenta il carcere va superato».

– Così però viene meno il concetto di punizione? O va bilanciato con l’intento rieducativo e riparativo?

«Il concetto di punizione va eliminato, occorre proprio un’altra concezione che metta al centro l’educazione, la riparazione e il cambiamento della persona. Servono forme di giustizia riparativa. Vanno pensate forme di acquisizione della consapevolezza del danno procurato, per passare a un’evoluzione della coscienza che ti porta a riparare. Questo comporta che tutta la società deve cambiare evolvendo verso forme più civili. Non è che il carcere sia una parte a sé stante, è un’idea di insieme e il carcere fa parte di una società che pensa e agisce in questo modo violento».

– Questo presuppone una grande fiducia nell’essere umano e nella sua capacità di cambiare.

«Esattamente, occorre una grande fiducia e un grande amore per l’essere umano. Sa chi non ha fiducia nelle persone?».

– Chi?

«I regimi totalitari, quelli illiberali che partono da una sfiducia nell’essere umano e quindi gli negano i suoi diritti».

– Certo, così uno si immagina che domani vengano aperte le porte di Regina Coeli, dell’Ucciardone e di San Vittore e comprensibilmente si preoccupa…

«Non siamo dei pazzi furiosi. Delle strutture di contenimento ci devono essere, ci sono situazioni in cui qualcuno è dannoso a sé stesso e agli altri agli altri e lo devi fermare. Quello che non ci deve essere è il preminente ruolo della punizione. Direi il carcere come eccezione e non come regola, non come punizione ma come contenimento. D’altronde, ci sono situazioni in cui ci si rende conto che il diritto penale viene usato per regolamentare problemi sociali, in carcere c’è una grande manifestazione di disagi sociali».

– Come “Nessuno Tocchi Caino” avete scelto di aggiungere al nome un altra frase biblica, quella dell’apostolo Paolo «Spes contra Spem» («sperando contro speranza» – Romani 4, 18). Una frase sulla quale il leader radicale Marco Pannella ha sempre insistito molto. Che cosa significa per voi?

«Vede, “Nessuno Tocchi Caino” vale sempre più per lo Stato affinché per difendere le giuste ragioni di Abele non diventi esso stesso Caino. Invece “Spes contra spem” è rivolta ai detenuti perché siano loro, con il loro comportamento e cambiamento, a determinare il cambiamento che vogliono vedere rispetto alla loro situazione. Devono essere loro speranza».

– Resta il fatto che l’abolizione del carcere per molti è un’utopia

«Parlare di utopia spesso è anche una buona giustificazione a non fare. Di fronte alla violenza, pervasiva e diffusa, solo un pensiero nonviolento può mutare le cose. Quando la speranza non c’è negli altri devi essere tu speranza. Se noi siamo arrivati a superare l’ergastolo ostativo attraverso i pronunciamenti delle alte giurisdizioni (Corte Europea di Giustizia e la nostra Corte costituzionale) è perché ci sono stati ergastolani ostativi che hanno saputo essere loro speranza. Hanno manifestato un cambiamento più forte dell’ergastolo ostativo stesso».