3196585607_258e951495_o

Godard, un cinema di umanità oltre ogni retorica

Quando muore un “grande vecchio” del cinema, si pensa di solito che “con lui” se ne va un pezzo di quell’arte, si chiude una stagione: solo che nel caso di Jean-Luc Godard, scomparso questa mattina all’età di 91 anni, spariscono varie stagioni del cinema mondiale. Il tragitto del regista, orgogliosamente parigino in un’epoca (a cavallo tra anni ’50 e ’60 del ‘900) in cui ciò significava qualcosa di irripetibile, e proveniente da una famiglia calvinista in parte svizzera (ma la mamma, Odile Monod, veniva dalla famiglia forse più importante del protestantesimo francese), è comune a quello di altri autori francesi della sua generazione (François Truffaut, Eric Rohmer, Claude Chabrol, Jacques Rivette): dapprima frequentatori assidui dei cineclub e della Cinémathèque Française, poi critici cinematografici, infine autori a loro volta, a partire dagli anni tra il 1958 e il 1962, e intanto, sempre, spettatori assatanati dei film altrui. 

Poi però, mentre amici e colleghi avevano preso ognuno una propria strada molto chiara, quanto a stile e temi affrontati, Godard avrà per decenni la caratteristica di mettersi sempre in discussione, di cambiare approccio, di fare politica e fare televisione, di scomparire dalle cronache nella seconda metà degli anni ’70 per poi ritornarvi, innovativo e curioso di una società in modificazione imprevista, con un potentissimo quartetto di film («Si salvi chi può/la vita»; «Passion»; «Prénom Carmen»; «Je vous salue, Marie»), che tra il 1980 e il 1985 hanno evidenziato la sua rinnovata attenzione al rapporto, a volte fecondo a volte perverso e distruttivo, fra persone, corpi e lavoro; la protagonista di «Sauve qui peut/la vie» è una prostituta, il successivo «Passion» si basa sulle performance di un gruppo di attori che si fanno filmare mentre riproducono la postura di una serie di quadri di Goya; la Marie dell’ultimo film è Maria madre di Gesù, che vive la propria gravidanza con tutta la poesia e lo stupore che conosciamo dagli Evangeli e dalla tradizione innologica che ci è cara.

In altri anni, a cavallo tra il 1965 e il 1972 Godard aveva vissuto la stagione più “politica”, culminata in titoli come «La cinese» (1967) e con la realizzazione di un episodio del film collettivo «Caméra-Oeil», dedicato al Vietnam; nello stesso periodo si dedicava ai cine-giornali realizzati anche in collettivo. Ora, estrapolando da molti di questi film i soli dialoghi, già quarant’anni fa questi ultimi denunciavano tutta la loro “età ideologica”. I testi sono retorici e le relative “parole d’ordine” da tempo superati abbondantemente dai fatti e dalla storia. E tuttavia resta dell’altro, molto altro, dell’altro che continua a farci considerare Godard un grande, anche se a volte troppo desideroso di essere anche un teorico (e che teorico, assolutamente stimolante!), al pari di un altro grande come fu Sergej M. Ejzenstejn.

Godard sosteneva che non importava tanto di fare “film politici”, quanto piuttosto di fare dei film “politicamente”. E infatti ciò che ancora intriga nel suo cinema è proprio la capacità di farci vedere i personaggi da un lato, e le idee che esprimono dall’altro: due percorsi paralleli, a  volte intrecciati, a tratti dilaceranti. Le idee possono passare, ma l’umanità afflitta o speranzosa che se ne fa portavoce, rimane. Come dire, pensando all’oggi e a questa stralunata campagna elettorale: i problemi restano, anche se chi se ne occupa fa di tutto per tappezzarli di parole narcisistiche o di obblighi da rendere alla moda. Sempre i problemi emergono in tutta la loro concretezza, come nel capolavoro «Due o tre cose che so di lei» (1967), dove “lei” è la città di Parigi, di cui si sta attuando sventramento e ridisegno urbanistico in vista dell’approdo a una nuova, imprecisata, antropologia); oppure nel più vecchio e ancor più bello «Questa è la mia vita» (Vivre sa vie – 1962): la protagonista, anche in questo caso una prostituta, viene esaminata in tutta la sua poetica umanità, e la retorica dei discorsi, una volta di più, lascia spazio agli sguardi, all’uso creativo delle musiche e dei rumori, alle piccole emozioni, che sembrano sommerse dalla retorica ma poi riaffiorano orgogliose. La nostra umanità alla fine vince, anche nella sofferenza, perché è sempre autentica.

 

 

 

Foto di Gary Stevens