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Polizia Penitenziaria. Investire nella formazione continua

 

Nel 2018 nasce il Progetto itinerante di sostegno psicologico al lavoro dell’agente di Polizia Penitenziaria, per gli istituti penitenziari di Civitavecchia (su proposta della locale chiesa battista e finanziato con i fondi otto per mille battista), che si è poi ampliato a Regina Coeli (grazie al lavoro diaconale svolto dalla chiesa battista di Roma-Trastevere). Il Progetto, che è stato approvato e favorito dal Provveditorato della Regione Lazio, sta crescendo e, in accordo con il Ministero della Giustizia, è stato replicato già in altri istituti penitenziari d’Italia. La dott.ssa Silvana Sergi – già direttrice degli istituti penitenziari di Civitavecchia e poi di Regina Coeli (Roma), ora responsabile della formazione e del personale presso il Provveditorato regionale del Lazio Abruzzo e Molise –, ha fin da subito creduto nel progetto e lo ha appoggiato. Le abbiamo rivolto alcune domande, partendo dal chiederle cosa l’ha convinta del Progetto.

«Insieme allo psicologo Mauro Gatti (responsabile del progetto) abbiamo maturato nel tempo l’idea di uno sportello “itinerante” per il sostegno al ruolo dell’agente. Ci siamo accorti nella precedente esperienza – io ero direttrice in un istituto penitenziario in cui lui era l’esperto per i detenuti – che ritagliare più occasioni per parlare con il personale incideva molto sulla tranquillità della intera sezione. Nel tempo questa disponibilità nei confronti del personale si è riverberata su tutto l’istituto; abbiamo visto crearsi un clima diverso: c’era più serenità, si verificavano meno situazioni di tensione, e laddove sorgevano difficoltà lavorative, il personale era in grado di gestirle con molta più tranquillità. Con il mio trasferimento alla direzione di Regina Coeli abbiamo pensato che il lavoro con la Polizia penitenziaria potesse essere veramente il futuro».

Ma non c’era già un lavoro di supporto psicologico per gli agenti?

«Sì, ma ci eravamo resi conto che il servizio di sportello di counselling, sia esterno sia quello previsto in istituto, non era vissuto bene dal personale, e che invece la modalità dell’andare loro incontro, era più funzionale: meno etichettante e più immediato. A quel punto abbiamo lavorato sulla logica dello “psicologo di prossimità” e, grazie al sostegno e all’impegno finanziario dell’opm dell’Unione battista, abbiamo dato avvio al progetto. All’inizio la proposta non è stata presa molto sul serio, ma poiché credevamo fortemente nell’idea, siamo andati avanti. Nel tempo, abbiamo avviato una attività di formazione del personale, e appena è stato possibile si è lavorato per estenderlo e strutturarlo, anche finanziariamente, in tutti gli istituti penitenziari del distretto del Lazio, Abruzzo e Molise. Dall’anno scorso in queste tre regioni abbiamo cercato i professionisti che sposassero questo approccio, e poi abbiamo coinvolto altri istituti penitenziari». 

Alla luce della sua esperienza pluriennale, quali sono le maggiori criticità che affrontano oggi gli istituti penitenziari? 

«Le criticità sono tante, ma oggi ritengo che a creare maggiore stress sia la accresciuta presenza di detenuti con notevoli problematiche psicologiche e psichiatriche. Purtroppo, queste persone non hanno supporto né dal territorio né dalle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems; struttura sanitaria di accoglienza per gli autori di reato affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi, ndr.), che non hanno gli spazi necessari per ospitarli».

Dunque, questi detenuti arrivano in carcere, che è un luogo che in realtà non può aiutarli?

«Paradossalmente il carcere si sta rivelando per queste persone l’unico luogo che li aiuta, anche se non è il luogo deputato ad assisterli, perché il personale non è formato ad occuparsi di questa tipologia di detenuti. Per carità, c’è il sostegno dell’Asl, ma le strutture deputate a prendersi cura di queste persone sono altre, non è il carcere. Occorre affrontare il problema delle Rems».

Quali sono le priorità di intervento?

«Occorre investire sulla formazione. La mia idea – e ne ho già parlato con gli uffici superiori – è di iniziare un lavoro di formazione da svolgersi “poco e spesso”: le attività di grande respiro ma isolate nel tempo incidono poco, piuttosto va proposta una formazione continua da realizzarsi sia negli istituti, sia attraverso incontri in videoconferenza o all’esterno. Attraverso un’attività formativa continua, il personale non solo ha le risposte nel momento in cui sorge un’emergenza ma ha anche un supporto tecnico che accompagna il consueto lavoro in carcere. In virtù dei risultati che in questi anni abbiamo raccolto svolgendo l’attività itinerante di sostegno psicologico al lavoro degli agenti di polizia penitenziaria, mi auguro che il Progetto abbia una struttura definitiva e che diventi patrimonio di sempre più amministrazioni penitenziarie».