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Quando la Pace divide

Divisi. Ma anche confusi. Ci scopriamo così quando ragioniamo della guerra in Ucraina. E proprio mentre si organizzano le prime manifestazioni scopriamo posizioni distanti anche tra coloro che pure chiedono la pace. Le “piazze della pace”, infatti, sono diverse e non parlano lo stesso linguaggio. Sostenere la resistenza ucraina o, nel nome della pace, invocare la resa umanitaria? Concedere nuove armi a Kiev o, sempre nel nome della pace, sperare che i russi raggiungano quanto prima i loro obiettivi? Condannare in modo inequivoco Putin o, per amore di pace, attribuire quote di responsabilità anche al nazionalismo ucraino, alla Nato e agli Usa? Proseguire e anzi inasprire le sanzioni contro la Russia o, per amore della pace, abbassare i toni dello scontro per condurre Mosca ad accettare una trattativa? Sono questi gli interrogativi di oggi, quelli attorno ai quali si ragiona e ci si divide, anche nelle comunità di fede. 

Chi cerca di uscire dalla tenaglia di questi interrogativi si rifugia dietro gli argomenti sempre verdi della produzione di armi che, ovviamente, si vendono meglio quando c’è la guerra. E quindi invoca una riconversione globale dell’industria bellica: argomento moralmente ed economicamente ineccepibile ma oggi, mentre le bombe cadono su Zaporizhzhia e uccidono centinaia di civili, quanto meno fuori tempo. 

Divisi o confusi, talvolta le due cose insieme. Per questo il fronte “della pace” è tutt’altro che compatto e si confrontano idee e mobilitazioni non sempre compatibili. Oggi più di ieri, forse, si contrappongono idee diverse di pace. E non è solo questione di diversità dei mezzi per raggiungerla, ma di concezioni diverse dello stesso fine che si vuole perseguire. 

Vale anche per la comunità cristiana: se per tutti e tutte la pace è un valore assoluto e completo, radicato nella ricchezza di significati e attributi dello shalom biblico, nella contesa geopolitica è un frutto della storia, dei rapporti di forza che si stabiliscono sul campo e del potere di coercizione della comunità internazionali e dei suoi organismi, l’Onu primo tra tutti. Soprattutto, la pace è determinata dalla volontà dei popoli coinvolti, quello che ha aggredito e quello che è stato aggredito. Ma oggi questa volontà di pace si esprime in gruppi largamente minoritari in Russia e, per quanto possiamo capire a distanza, non emerge affatto nel campo ucraino.

Il termine è lo stesso – pace – ma tra la visione biblica che ci orienta e la realtà storica che dobbiamo perseguire esiste un’incolmabile distanza. Si tratta di concetti e di “oggetti” sostanzialmente diversi: la prima è un orizzonte, una profezia, la visione verso cui siamo chiamati a camminare; la seconda è equilibrio, una contingenza fragile, preziosa e drammaticamente temporanea. Distinguere i due piani è essenziale per non cadere in una sorta di integrismo pacifista, confuso quanto politicamente inefficace. 

Certo, la visione indicata dalla fede in Cristo resta e ci mette in mano una bussola, ma poi siamo noi a dover tracciare la strada per ottenere dei risultati concreti di pace, sia pure parziali. Sotto le bombe cadute sulla popolazione di Mariupol e di Zaporizhzhia, la prospettiva della fine della guerra in Ucraina non si costruisce con profezie rassicuranti o con appelli morali: occorrono argomenti concreti, proposte credibili, soluzioni sostenibili che ancora oggi non appaiono in campo. E per questo, dopo mesi di guerra, siamo angosciati, stanchi di vedere immagini disumane e raccapriccianti. 

E allora che fare? Ridurre la preghiera a un rassicurante rifugio che esime da scelte complesse e imperfette o farne lo spazio del discernimento, il tempo utile a capire come a stare nella storia, come camminare sui suoi sentieri fangosi? L’Evangelo non ci esime da un giudizio. Anzi, dove ci sono violenza e sopraffazione ci spinge a un posizionamento per avviare percorsi di pace e giustizia. Posizionamento non schieramento. Forse è questa la strada, almeno per gli evangelici. Più che dividerci sulle manifestazioni alle quali aderire o agli appelli da firmare, cerchiamo di definire una posizione, sia pure con poche parole ma evangelicamente fondate, sostenibili e condivise. Riusciamo a dire che non c’è pace senza giustizia? Concretamente significa che non è data soluzione del conflitto senza la garanzia della sovranità e della sicurezza dell’Ucraina? E senza la tutela della popolazione russofona del Donbass? 

Riusciamo a dire un no assoluto e categorico all’utilizzo attivo o reattivo di armi nucleari, sia pure “tattiche”? E a far valere questa pregiudiziale anche nei confronti degli Usa e degli alleati occidentali?

Riusciamo a chiedere alla comunità internazionale – a iniziare dall’Unione Europea – di aprire un tavolo negoziale verso il quale spingere e perfino costringere i contendenti? Sappiamo che per qualche settimana resterà deserto, ma con le dovute pressioni si può sperare che entrambe le parti cerchino l’exit strategy a una guerra che potrebbe durare ancora anni.

Riusciamo ad attivare i canali ecumenici in cui anche l’evangelismo italiano è ben presente e attivo per chiedere una confessione di peccato a chi ha benedetto la guerra e vuole trasformarla in una crociata morale contro l’Europa secolarizzata e blasfema? Tra il 23 e il 25 ottobre si parlerà di questi temi in occasione del consueto incontro promosso dalla Comunità di Sant’Egidio, che si svolgerà a Roma e sarà concluso da papa Francesco. È un’occasione – altre potremo cercarne – per condividere e rafforzare questa richiesta.

Parafrasando Martin Luther King, «è mezzanotte nell’ordine mondiale» ma come cristiani non possiamo far altro che accendere la luce della nostra speranza e della nostra fede.