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Un “Sanctus et Benedictus” valdese contemporaneo

Un “Sanctus valdese”? Sì, si può fare: è una felice espressione di creatività e di fede, che prende le mosse dalla conoscenza fra Giacomo Di Tollo, abruzzese residente in Belgio, dove dirige il coro di una chiesa cattolica, con Furio Rutigliano, valdese e musicista a sua volta, sia con la chitarra (classica e rock) sia nella composizione. Un passo indietro.

«La chiesa di Saint- Martin ad Arlon – dice Di Tollo – è particolare nella storia del Belgio: un edificio neogotico risalente all’inizio del XX secolo, che Leopoldo II [re dal 1865 al 1909, ndr] volle costruire alla frontiera con il Lussemburgo, per impressionare i viandanti di paesi e culture diverse. Noi vogliamo lanciare un messaggio di pace e fraternità, soprattutto nel periodo che viviamo oggigiorno, rivolto ai nostri fratelli di confessioni e idee diverse, e per iniziare, abbiamo commissionato un Sanctus e Benedictus a un compositore valdese».

I due musicisti si conoscono da alcuni anni, a seguito di un concorso di composizione, ma certo, la richiesta è singolare: «Un Sanctus et Benedictus – dice Furio Rutigliano – fa pensare al rito cattolico in latino, un rito che la Riforma ha messo in discussione per puntare al coinvolgimento dell’assemblea dei credenti nel culto, e al rapporto personale con Dio. I Sanctus et Benedictus entrati nella storia della musica sono complessi, destinati a cantori specializzati, e sono in latino… I valdesi non hanno nella liturgia la tradizione né del canto in latino né della polifonia poliritmica: si canta nella lingua madre e i cori delle comunità cantano di solito gli inni in semplice polifonia a 4 parti». Allora, l’idea doveva ritenersi impraticabile? «No, perché il canto cristiano, prima di essere riformato e controriformato, era “canto cristiano” e basta. Sono stati i monasteri (come quello in cui era anche Lutero) e le cattedrali a coltivarlo per secoli: una preghiera prima monodica, come il Canto Gregoriano, poi polifonica. La Riforma ha messo l’accento sulla partecipazione popolare, che però non vuol dire respingere la musica “elaborata” dal culto, poiché tutto è sempre a gloria di Dio. Ricollegarsi alla grande tradizione della scrittura corale colta è una pratica che nelle chiese riformate è sempre esistita, come testimoniano le corali». 

Lo conferma Giacomo Di Tollo: la musica sacra è sempre stata «fonte di ispirazione per tutti i musicisti, anche di fede diversa da quella alla quale è destinata la musica da essi scritta per un culto specifico. Non vedo troppa differenza rispetto alle epoche passate, popolate sicuramente di compositori di immensa religiosità: pensiamo a Perosi e Liszt, ma anche al protestante Bach, che compose la grande Messa in si minore destinata al culto cattolico, esempio di perfezione difficilmente uguagliabile. Allo stesso modo, ci sarebbe da discutere sulla “religiosità” dei cattolici Mozart e Vivaldi, ma nessuno obietterebbe nulla rispetto al sentimento sacro di cui si nutrono, rispettivamente, il Requiem e la Messa di Gloria».

Allora, come ha proceduto l’autore? «La prassi della musica sacra polifonica, dal tardo Medioevo al Rinascimento – riprende Rutigliano –, prevedeva la possibilità di scrivere a più voci sulla base di una canto preesistente, sacro o profano. Si prende un canto, se ne allungano le note, come “al rallentatore”, e lo si affida a una voce, il Tenor, che appunto le sostiene, le “tiene su”: polifonia su cantus firmus. Questa melodia costituisce il telaio su cui si snodano le altre, di nuova invenzione: una tecnica che è stata usata molto spesso (tra gli altri, da Bach), che ho pensato di adottare. Ho sfogliato perciò il volume “Sessanta salmi di David / tradotti in rime volgari italiane, secondo la verità del testo hebreo; col cantico di Simeone e i dieci Comandamenti della Legge; ogni cosa insieme col canto” (https://www.e-rara.ch/gep_g/doi/10.3931/e-rara-5832), e ho scelto il Salmo X. Questa raccolta di canti è una produzione nell’ambito della Riforma ginevrina, con tanto di prefazione di Giovanni Calvino, stampata nella traduzione italiana da G. B. Pinerolio nell’anno 1566 – un altro collegamento alla Riforma. Io poi ho utilizzato la versione in lingua francese, pensando alla destinazione in Belgio ma anche al fatto che per i valdesi il francese è stata lingua familiare per secoli».

Come si concilia il “molto antico” con la sensibilità di oggi? « L’elaborazione a 4 voci segue le regole di base della composizione polifonica in stile “severo”, che si richiama alla prassi rinascimentale, e poi a Bach e ai suoi contemporanei, ma allarga la dimensione armonica, creando delle sonorità più “moderne”. È perciò un tentativo di collegare la prassi antica con sonorità più vicine a noi, ma senza spingersi nelle soluzioni musicali contemporanee più avanzate».

Certamente crescendo in una casa pastorale si familiarizza presto con gli inni: che cosa rimane di questa formazione? «A mio padre, il pastore Aldo, piaceva molto cantare, mia madre suonava l’armonium e dirigeva la corale. Ricordo che tornavano a casa e ascoltavano le registrazioni delle prove su un piccolo registratore a bobine “Geloso”: le ascoltavo anch’io, cercando di capire di quali persone erano le varie voci. Ricordo la Festa di canto dei bambini delle scuole domenicali e le riunioni delle corali, poi Agape con i suoi canzonieri “moderni”. Sono cresciuto in mezzo alla musica della fede. C’è un futuro per questo repertorio, che sia severo e raffinato o popolare e semplice: molto dipende dal desiderio di coltivarlo e di contribuire a costruirlo».

Allora, presto questo Sanctus et Benedictus “valdese” sarà eseguito… «Certamente: nella notte del Natale venturo – conclude il m° Di Tollo –. E sarà la prima di una lunga serie: ho la fortuna di operare in uno Stato in cui il ruolo dell’antico “maestro di cappella” è ancora rispettato (e sovvenzionato), e questo è il mio modo di esserne riconoscente».

 

Nella foto Furio Rutigliano