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Politiche migratorie: le sanatorie non possono risolvere tutti i problemi

Le sanatorie sono il pilastro di fatto delle politiche migratorie italiane: le misure che hanno consentito l’emersione di buona parte dei 5,3 milioni circa di residenti regolari, sulla base di una domanda presentata dal loro datore di lavoro. Non è una soluzione molto elegante, come non lo sono in genere le sanatorie, ma ha il pregio del pragmatismo. Una volta che le persone sono entrate (di solito non sbarcando dal mare, ma in modo regolare, soprattutto con visti turistici), hanno trovato un lavoro, spesso presso famiglie italiane, e si sono bene o male insediate, non ha molto senso lasciarle ai margini della società: tollerate, ma prive della maggior parte dei diritti e delle tutele dei lavoratori, escluse dall’obbligo di contribuzione fiscale ma anche dalla maturazione dei benefici previdenziali. Negli Stati Uniti, dove da decenni ormai discutono di misure analoghe senza trovare un accordo, hanno accumulato più di dieci milioni di residenti irregolari.

Il governo italiano, allora presieduto da Giuseppe Conte in coalizione con il Partito democratico e Sinistra italiana, nel maggio 2020, in piena pandemia, aveva approvato l’ennesima sanatoria, l’ottava in 34 anni. Dopo un travagliato dibattito (il M5S era reduce dalla coalizione con la Lega di Salvini e dalla condivisione di una serie di controverse misure anti-immigrati), la maggioranza aveva trovato un compromesso sulla regolarizzazione di due categorie di lavoratori considerati essenziali: i braccianti agricoli e i lavoratori (soprattutto lavoratrici) domestico-assistenziali. Erano pervenute alla scadenza di metà agosto 207.870 istanze, per l’85% riferite al settore domestico. Meno di quanto molti auspicavano, ma più o meno in linea con le previsioni governative. Sostanzialmente, per come era stata disegnata, la sanatoria non rispondeva alle esigenze del settore agricolo: troppo costosa, complessa e vincolante, e arrivata per di più tardi rispetto alle scadenze stagionali. L’ambito domestico si confermava la porta d’ingresso principale verso la regolarità del soggiorno, come nelle due precedenti sanatorie, quella di Monti del 2012 e quella targata Maroni del 2009, esplicitamente riservata al settore. Malgrado i limiti, si è trattato della maggiore manovra di regolarizzazione attuata da un paese Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) all’epoca del Covid.

Le soluzioni pragmatiche si legittimano anche in base alla loro efficienza nel risolvere un problema. Purtroppo nel caso della sanatoria del 2020 non è andata così. A oltre due anni dalla presentazione delle domande, nel mese di novembre oltre 50.000, circa un quarto del totale, risultavano ancora in fase d’istruttoria. Ma anche chi alla fine una risposta l’ha ottenuta ha dovuto attendere parecchi mesi, spesso più di un anno, talvolta due, per conoscere il suo destino: 124.000 accolti, 28.000 respinti, 4.000 rinuncianti (Il Sole – 24 ore, 20 dicembre 2022). Hanno concorso a questo indecoroso ritardo il Covid e la chiusura degli uffici pubblici, la mancanza di personale presso le Prefetture, la necessità di un bando europeo che ha richiesto sei mesi per assumere gli 800 lavoratori in somministrazione che hanno affiancato il personale prefettizio, la successiva scadenza del loro contratto. Per farla breve, un labirinto burocratico all’italiana e un conseguente disastro. Migliaia di persone sono state lasciate in una condizione d’incertezza sul loro status e il loro futuro, né incluse né escluse, impossibilitate per esempio a pianificare un ricongiungimento familiare o un miglioramento lavorativo.

Il problema si ripresenterà. Abbiamo un mercato del lavoro che non sta trovando la manodopera di cui ha bisogno, un decreto flussi più ampio dei precedenti (dovrebbero arrivare più di 80.000 persone), ma sempre orientato a privilegiare il lavoro stagionale, procedure autorizzative migliorate dal governo Draghi, ma ancora complesse e farraginose. Dobbiamo aspettarci una ripresa del ricorso a lavoratori immigrati in condizione irregolare. Ad aumentare i numeri contribuirà poi la prevedibile stretta sull’asilo a cui il governo Meloni difficilmente rinuncerà, dovendo lanciare messaggi identitari ai propri elettori.

Sarebbe meglio elaborare per tempo una nuova politica, sull’esempio francese e spagnolo: meccanismi di regolarizzazione caso per caso, senza una scadenza predeterminata, basati su condizioni come una certa anzianità di soggiorno, l’assenza di condanne per seri crimini, un rapporto di lavoro già instaurato, oppure un legame stabile con residenti già da tempo insediati. A differenza delle sanatorie, questi meccanismi di regolarizzazione sono meno visibili e meno destinati a suscitare polemiche. Andrebbe nella medesima direzione una maggiore possibilità di modificare il titolo legale di soggiorno: da richiedente asilo a lavoratore, per esempio, quando si fa avanti un imprenditore disposto ad assumere, superando l’incerta procedura per il riconoscimento dello status di rifugiato. Nessuno guadagna dalle lungaggini e dall’esclusione delle persone su basi ideologiche. Il paese invece cresce se più persone lavorano e contribuiscono al benessere di tutti.