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Vanno di moda i corridoi umanitari?

Almeno a giudicare da ciò che appare sui media, cresce il consenso, anche in alto, per la pratica dei corridoi umanitari. In molti si prodigano in apprezzamenti per l’idea – nata ecumenicamente tra la nostra Federazione delle chiese evangeliche in Italia e la Comunità di S. Egidio e poi fatta propria da altre organizzazioni, anche all’estero – di provvedere vie sicure e legali di accesso alla protezione umanitaria a chi fugge da tragedie che mettono a rischio la sua vita. All’arrivo dell’ultimo corridoio dalla Libia, ad accogliere all’aeroporto di Fiumicino, vennero insieme il ministro dell’Interno e quello egli Esteri del governo appena insediato.
In quell’occasione abbiamo sottolineato come le azioni come quelle dei corridoi umanitari non vadano comprese come gesti caritatevoli di anime pie, da approvare ed eventualmente incoraggiare, ma come esse abbiano a che fare con i principi della nostra Repubblica democratica costituzionale e con una visione dell’Unione Europea fondata sulla tutela e la promozione dei diritti umani. Come tali sono una “buona pratica”, come si dice, che potrebbe essere adottata anche dagli Stati e, noi pensiamo, dovrebbe sostituire i respingimenti violenti come invece avvengono sulla rotta cosiddetta balcanica e l’esternalizzazione della stessa pratica quando viene affidata a Stati di dubbia o nulla qualità democratica.

Il crescente plauso per i corridoi umanitari sembra però avere un risvolto preoccupante: può essere la faccia nobile di una medaglia, che sull’altra ha i tratti della chiusura: limitazione al lavoro di ricerca e salvataggio da parte delle Ong, osteggiate con una retorica di crescente condanna e bollate come fattore di attrazione dell’immigrazione “illegale”, nonostante il fatto che il novanta per cento dei salvataggi in mare sia effettuato da forze statali; prosecuzione della politica di blocco, perseguita sostenendo nell’operazione di contrasto alle partenze gli Stati da cui i migranti si protendono verso l’Europa, finanziamenti in cambio di blocchi, magari contando sul fatto che alcuni di questi partner non hanno una spiccata propensione per le buone maniere… Lo ha fatto l’Europa con la Turchia, l’Italia (non da ora!) con il sostegno alla Guardia costiera libica e da ultimo con la Tunisia. Sappiamo da fonti certe che cosa questo significhi, a esempio per chi viene riportato in Libia: essere reclusi in centri di detenzione o semplicemente essere risospinto più indietro in un macabro “gioco dell’oca”. Nessuno si chiede che cosa si potrebbe fare di più ragionevole e umano con il danaro investito in operazioni di blindatura delle frontiere, in particolare marittime.

Uso apposta i due aggettivi “ragionevole” e “umano”. In troppi pensano che parlare di umano significhi consegnarsi alle sabbie mobili di un sentimentalismo irrealistico e che essere ragionevoli richieda una certa dose di cinismo. È qui che si avverte drammaticamente la mancanza della politica, ormai da troppo tempo soppiantata dalla perenne propaganda, orientata agli umori e non ai progetti, giocata nell’immediato delle emergenze e priva di analisi che vadano oltre il contingente e senza programmi lungimiranti.

Di fronte a un fenomeno epocale come quello dei movimenti di popolazioni causati da guerre, dittature, fame e mutazioni climatiche, di cui gli esperti possono già descriverci le linee di sviluppo nei prossimi decenni, servono analisi documentate e non percezioni; servono ragionamenti, progetti insieme realistici e improntati a quei valori a cui l’Occidente è giunto dopo aver praticato e subito (c’è sempre un perpetratore e una vittima) tutto ciò che oggi ancora in molte parti del mondo costringe alla fuga milioni di esseri umani, costretti a dover cercare altrove quello che a loro è negato; valori a cui l’Occidente è giunto dopo aver subito intolleranza religiosa, dittature, due guerre mondiali, schiavismo, sfruttamento…

L’approdo democratico e costituzionale a cui siamo giunti dopo questo passato sanguinolento è stato vissuto e presentato come una scoperta che non solo faceva uscire noi dal tunnel dell’oscurantismo e della sopraffazione, che non solo risolveva i nostri problemi, ma che aveva in sé la potenzialità di essere universalizzabile, di essere attuato globalmente. La vera sfida che il fenomeno delle migrazioni pone all’Europa è questa: qual è la politica all’altezza dei principi che l’Europa ha messo a fondamento del suo progetto? Qual è la postura che corrisponde alla sua visione? Per rispondere ci vogliono realismo e visione insieme, pazienza e ardimento, cultura e cuore.