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Dio abita dove lo si lascia entrare

Il 7 dicembre 1954, un prete di 31 anni, don Lorenzo Milani, arriva a Barbiana, nel comune di Vicchio nel Mugello (FI). È un giorno di pioggia, il camion con la sua roba non può arrivare alla chiesa perché non c’è la strada. La roba viene scaricata sotto l’acqua un km prima, trasferita su un carro, trascinato dai buoi, per portarla tutta infangata e fradicia alla chiesa. A Barbiana non c’è né luce né acqua. Non c’è nemmeno un villaggio. C’è una chiesa con una canonica e venti case disperse tra i boschi. Gli abitanti sono 40.

Quel trasferimento suscita la viva perplessità della mamma di quel prete e dei suoi amici più cari. Ma proprio a lei, a pochi giorni dal suo arrivo, don Milani scrive: «Non posso credere che tu desideri che mi metta nello stato d’animo del passante o del villeggiante. Don Bensi e Meucci mi hanno scritto lettere molto simili alla tua… Non ti basta l’affanno di ogni giorno? E neanche c’è motivo di considerarmi tarpato se sono quassù. La grandezza di una vita non si misura dalla grandezza del luogo in cui si è svolta, ma da tutt’altre cose. E neanche le possibilità di far del bene si misurano sul numero dei parrocchiani. Sai bene che ormai non ho più bisogno di andare a cercare nessuno, sono loro che mi cercano e non ho mai un minuto libero».

È il proposito mai rinnegato e onorato fino all’ultimo da parte di questo cocciuto prete fiorentino a una fedeltà che avrebbe espresso con parole chiare: «di fatto si può amare solo un numero di persone limitato». Sarà una fedeltà che don Milani condividerà con altri grandi italiani del secolo scorso che hanno pensato che si potesse cambiare il mondo cominciando dal villaggio, spesso una periferia della grande storia, dove vivevano. Penso a Danilo Dolci, prima a Trappeto e poi a Partinico, oppure a Franco Basaglia, prima a Gorizia e poi a Trieste, ad Adriano Olivetti a Ivrea. Ma penso anche alla scelta rivoluzionaria di Tullio Vinay, pastore valdese, che scelse Riesi per poter vivere la sua vita come ha imparato dal Vangelo, nell’unico orizzonte dell’agape: «Che senso ha il nostro lavoro, qui, in questa terra dimenticata dagli uomini e dalla loro storia, dove si vive ai margini di tutto… Qui i piedi affondano nel fango e nello sterco… Riesi non dirà mai una parola al mondo. Esso è troppo avanzato perché lo possa ormai raggiungere. Riesi pensa a sopravvivere e vorrebbe solo che i suoi figli non fossero costretti ad essere randagi per guadagnare il pane come forestieri».

Tutte vite trascorse in fedeltà assoluta a persone concrete e nella lucidità di comprendere i problemi generali alla luce di situazioni particolari. In una totale partecipazione con uomini, donne e ragazzi con un nome e un volto. In Lettera a una professoressa, così si esprime don Milani, a proposito del suo impegno per un riscatto dei suoi ragazzi con l’istruzione che propone loro con la sua scuola: «In Africa, in Asia, in America Latina, nel Mezzogiorno, in montagna, nei campi, perfino nelle grandi città, milioni di ragazzi aspettano di essere fatti uguali. Timidi come me, cretini come Sandro, svogliati come Gianni. Il meglio dell’umanità».

Sempre don Milani nelle sue ultime parole ai ragazzi di Barbiana: «Caro Michele, caro Ferruccio, cari ragazzi… ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto a suo conto». Parole precedute, qualche anno prima, proprio da analoghe di Tullio Vinay: «Noi vorremmo che questi uomini dal volto severo e profondamente triste, che queste donne avvolte nello scialle nero, in perenne lutto, che queste giovinette che una morale assurda tiene chiuse in casa, che questi bimbi che non hanno il necessario né per il loro corpicino né per la loro mente e che pochi avviano alla conoscenza della vita… conoscano l’“ultimo” fra gli uomini che Dio ha fatto il Primo e il Vivente e Signore della storia e Giudice di tutti… questa è una terra lontana, è un popolo che non sa di essere popolo, ma se Dio lo visiterà sarà, allora, popolo di Dio ed avrà parte nel mondo nuovo».

E di fronte alla difficoltà di predicare per questi uomini e queste donne, di farsi capire da loro, Tullio Vinay, usa quasi le stesse parole di don Milani (né passante, né villeggiante): «Perché non posso farmi capire? Bisognerebbe che prima diventi come loro, senza sorriso, ed abbia vissuto questo loro destino? Ora son solo il turista? Un visitatore teorico? Eppure questa gente vuole capirmi, attende qualche parola vera, vuol sapere… ed io dopo quasi trent’anni di predicazione, tra loro, mi sento come uno studentello di teologia!».

Ha bruciato nel cuore di questi profeti il desiderio di una condivisione senza rimpianti e risparmio. «Un giorno in cui riceveva degli ospiti eruditi, Rabbi Mendel di Kozk li stupì chiedendo loro a bruciapelo: “Dove abita Dio?”. Quelli risero di lui: “Ma che vi prende? Il mondo non è forse pieno della sua gloria?”. Ma il Rabbi diede lui stesso la risposta alla domanda: “Dio abita dove lo si lascia entrare”. Ecco ciò che conta in ultima analisi: lasciar entrare Dio. Ma lo si può lasciar entrare solo là dove ci si trova, e dove ci si trova realmente, dove si vive, e dove si vive una vita autentica. Se instauriamo un rapporto santo con il piccolo mondo che ci è affidato, se, nell’ambito della creazione con la quale viviamo, noi aiutiamo la santa essenza spirituale a giungere a compimento, allora prepariamo a Dio una dimora nel nostro luogo, allora lasciamo entrare Dio» (Martin Buber).