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Martin Luther King Day. Giustizia razziale, antimilitarismo, riconciliazione

Il 15 gennaio del 1929 nasceva Martin Luther King: pastore battista, leader del movimento per i diritti civili, premio Nobel per la pace. Negli Stati Uniti, ogni anno, il terzo lunedì di gennaio ricorre il Martin Luther King Day, proprio per ricordare la sua figura e i suoi ideali.

Fra i temi portanti del cosiddetto MLK Day ci sono la nonviolenza e l’antirazzismo. Nella celebrazione presso la Ebenezer Baptist Church ad Atlanta, dove fu pastore lo stesso King, sarà presente la famosa cantante gospel Yolanda Adams. È anche il momento del rilancio della campagna #Nonviolence365, per un impegno civile 365 giorni all’anno. “Be a King”, (siate un King) ha twittato Bernice King, figlia minore di MLK, avvocata, pastora, attivista, a capo del Centro che porta il nome del padre.

Una chiamata all’impegno personale, come la madre di Bernice, Coretta Scott King, definiva la Beloved Community: “una visione realistica di una società realizzabile“. Una cultura di “equità, gentilezza e giustizia che inizia con ognuno di noi nel momento in cui decidiamo di impegnarci con amore, dignità e compassione”. E ancora: “Nella #BelovedCommunity, la cura e la compassione guidano politiche e pratiche per l’eliminazione della povertà, della fame e di tutte le forme di fanatismo e violenza in tutto il mondo”.

Il mondo ha bisogno di tanti MLK? Abbiamo bisogno di eroi? Dove porterebbe il suo sguardo, la sua lotta, il suo corpo, un Martin Luther King moderno? Abbiamo chiesto un commento a Paolo Naso, autore fra l’altro del libro “Martin Luther King, una storia americana” (ed. Laterza).

«La ricorrenza del Martin Luther King Day fu decisa dal presidente Ronald Reagan nel 1983, una circostanza per certi aspetti paradossale. La politica di Reagan infatti non si distinse per il sostegno alla causa dei diritti degli afroamericani ma, al contrario, per i tagli a varie misure di welfare e di sostegno di cui molti di essi beneficiavano.

Ma quella non fu l’unica occasione in cui si fece un uso paradossale e strumentale di Martin Luther King. Non si contano i libri che hanno trasformato un leader che quando era in vita fu contestato, arrestato 29 volte, che subì almeno tre attentati, in un “eroe americano”.

Per molti aspetti questa operazione di “beatificazione” ha prodotto una edulcorazione del messaggio di King: ha esaltato la sua nonviolenza, il suo saldo radicamento nella tradizione cristiana americana, la fiducia nella democrazia americana; ma al tempo stesso ha trascurato la sua denuncia dell’ingiustizia economica del sistema americano; la sua opposizione alla guerra in Vietnam, il sostegno alla causa dei poveri americani, bianchi e neri.

Dalle commemorazioni istituzionali esce così un King mummificato, un eroe che con la sua lotta e la sua morte assolve gli americani dai peccati dello schiavismo, del segregazionismo e del razzismo.

Per ricordare King in modo appropriato occorre innanzitutto studiarlo, senza avere paura di individuare e ricostruire le svolte che pure hanno caratterizzato il suo ministero: ad esempio la denuncia della guerra, o dell’intreccio tra razzismo, militarismo e interessi economici. E persino la sfiducia nel sistema americano: tutti ricordano e celebrano il King che nel 1963 pronunciò il discorso sul “sogno americano”; ben pochi ricordano che lo stesso King, negli ultimi anni della sua vita, parlava invece di “incubo americano”, una sorta di destino che condannava i ragazzi di colore e quelli più poveri alla marginalità sociale, in un sistema che invece predicava le uguali opportunità per tutti. Per dare senso alle commemorazioni di King bisogna fare i conti sul razzismo di oggi e non solo quello di ieri. Un rapporto della prestigiosa e autorevole rivista Lancet documenta che negli ultimi quarant’anni le forze di polizia sono state coinvolte in oltre 30.000 uccisioni, in netta maggioranza di afroamericani. È questo il drammatico punto di forza di Black Lives Matter, il movimento nato tre anni fa dopo la morte di George Floyd, l’afroamericano ucciso da un poliziotto che per oltre otto minuti scaricò il suo peso sul corpo di un uomo disarmato.

L’eredità di King si gioca su questi temi, non sulla celebrazione del sogno americano che garantisce il diritto alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità. Non a tutti, almeno, e ai neri americani assai meno che ai bianchi.

E poi c’è li tema della guerra. Ogni paragone tra la guerra in Vietnam e l’invasione russa dell’Ucraina non ha senso. Diversi i contesti, diversi gli attori, diverse le strategie. Soprattutto, come americano, King stava dalla parte degli aggressori e non degli aggrediti. Quindi non credo si possa semplificare un confronto impossibile e complesso, immaginando che cosa King avrebbe detto o fatto di fronte alle stragi russe in Donbass.

Però sappiamo che King condannava la logica della guerra, gli investimenti nel settore militare e la politica degli armamenti. E quel monito resta pienamente attuale, e dovrebbe esserlo sempre non soltanto di fronte a un conflitto. A quel punto è già troppo tardi. La pace vera e duratura si prepara e si costruisce in tempi di pace.

Ma King fu anche e soprattutto un pastore evangelico. E per ricordarlo in modo appropriato non si può prescindere dal suo legame con la tradizione delle chiese nere, quelle nate nelle piantagioni dove gli schiavi, esclusi dalla Santa Cena celebrata nella chiesa del loro padrone, dettero vita a chiese loro, magari iniziando a pregare sotto un albero o nei pressi di un pollaio. E in quelle chiese, chi poteva e sapeva leggeva la Bibbia, spesso l’Antico testamento e le pagine della liberazione del popolo d’Israele dalle catene del Faraone. La fede cristiana di Martin Luther King si plasmò in quelle letture che divennero il sermone della sua vita. Una testimonianza cristiana incarnata nella storia: questo ci lascia MLK. E la profezia di una comunità di uomini e di donne riconciliata in Cristo, quella che lui chiamava la beloved community.

Giustizia razziale, antimilitarismo, riconciliazione: sono questi i temi da cui ripartire per comprendere l’eredità di King e liberarlo dall’ingessatura retorica che gli è stata costruita addosso».