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Energia, questione culturale

Ci sono voluti oltre tre lunghissimi decenni e una pandemia perché la crisi climatica divenisse un argomento rilevante per l’opinione pubblica. Abbiamo perso molto tempo utile, tanto più prezioso quanto più lenti si riveleranno i nostri strumenti di risposta. Ma ad ogni modo, negli ultimi due-tre anni, il tema è divenuto nel senso comune un’urgenza su cui agire, necessaria e inderogabile. Oggi è quindi il tempo del fare, e rapidamente. Prima però, proprio per definire le azioni da intraprendere, è bene interrogarsi su quali siano i fattori chiave di questo passaggio culturale del clima da argomento per ambientalisti a priorità diffusa. Il primo è certamente lo stratificarsi del lavoro di scienziati e attivisti, che ha reso sempre più incontrovertibile la rilevanza dei cambiamenti climatici e la necessità di un loro contrasto. Il secondo è l’ammissione, da parte di porzioni sostanziali del sistema economico, che i modelli economici impattanti sul clima sono già oggi insostenibili anche economicamente e ne occorre un drastico re-indirizzo, argomento che la pandemia ha reso possibile senza ripercussioni su valori azionari e investimenti. Il terzo è infine il connubio tra le prime avvisaglie dei cambiamenti in atto e le vaste, intelligenti, manifestazioni dei giovani; tale connubio ha trasformato i cambiamenti climatici da scenari piuttosto futuribili a elementi prossimi, che coinvolgono territori noti e il futuro delle famiglie. In sintesi, il cambio di passo culturale sul clima appare legato a tre fattori: aspetti scientifico-tecnologici, aspetti economici, aspetti di percezione della rilevanza e di sensibilità personale.

Venendo agli strumenti di azione, la transizione ecologica è unanimemente indicata come principale soluzione di contrasto e mitigazione del cambiamento climatico. Si tratta di una sfida epocale, in cui rimodulare il nostro modello di sviluppo sulla base dell’ecologia, intesa come scienza: rendere anche nei processi antropici la materia un ciclo – eliminando il concetto di rifiuto – e l’energia un flusso, proveniente, in ultima istanza, dal sole. Va da sé che ragionare in termini di sostenibilità dell’energia significa, prima ancora di approcciare le emissioni di CO2, affrontare il nodo dell’equilibrio tra le fonti e i consumi. Esattamente ciò che le fonti fossili ci hanno abituato a non fare per un paio di secoli, garantendoci energia abbondante, economica e facilmente trasportabile. E che invece le fonti rinnovabili, essendo discontinue e poco concentrate, ci richiedono in termini di quantità, distribuzione temporale e spaziale, reale disponibilità dell’energia. In sostanza, contrastare l’effetto serra e azzerare le emissioni climalteranti non significa semplicemente cambiare fonte, da fossile a rinnovabile, ma intraprendere un percorso assai più ampio, di revisione e adeguamento dei sistemi energetici.

Formalmente, non sarebbe impossibile mantenere lo status quo, alimentandolo a fonti rinnovabili. Le fonti rinnovabili non sono affatto esigue né tecnicamente o economicamente difficili da sfruttare: le energie delle fonti rinnovabili sono migliaia di volte superiori ai nostri consumi attuali, le tecnologie sono consolidate e, in molti casi, già pienamente concorrenziali con le fossili. Ma per rendere realmente disponibile a tutti l’energia rinnovabile in quantità e modalità simili a quelle delle fossili attuali, dovremmo realizzare una serie vastissima di grandi impianti, con impatti notevoli (che siano campi solari, pale eoliche o dighe) e investire disperatamente in infrastrutture di trasporto e sistemi di accumulo. Per questo, se si mira a creare soluzioni realmente durevoli, si devono portare i nostri sistemi energetici in riequilibrio con la realtà fisica delle rinnovabili, affrontando quei nodi citati di quantità, distribuzione temporale e spaziale, reale disponibilità dell’energia in termini di efficienza energetica, generazione distribuita e realizzazione rapida e concertata di alcuni, comunque numerosi, grandi impianti e infrastrutture necessari.

In concreto, si tratta di un mutamento di prospettiva piuttosto radicale rispetto ai decenni passati, anche sotto il profilo sociale. I temi dell’efficienza energetica e della generazione distribuita richiedono non solo un elevato livello di informazione dei singoli e una loro attivazione diretta (si pensi alla coibentazione delle abitazioni o alla realizzazione di impianti che trasformino le persone da consumer in “prosumer” – neologismo che indica un produttore al tempo stesso consumatore), ma anche una disponibilità a modificare i propri stili di vita. Questo è ad esempio il caso della nuova mobilità elettrica, in cui il modello dell’autovettura privata è destinato, per ragioni contingenti (economiche, energetiche, di disponibilità dei materiali…) a contrarsi fortemente, a favore di mobilità leggera e trasporto pubblico. Il tema della realizzazione degli impianti utili invece implica una nuova cultura della partecipazione come elemento stesso del progetto; fattore, questo, che soprattutto in un paese piccolo e popolato come l’Italia, è l’unica garanzia di realizzare le infrastrutture che servono davvero, correttamente e in tempi certi.

Sostanzialmente, se si esamina questo passaggio a nuovi sistemi energetici rinnovabili riprendendo gli iniziali tre fattori chiave nel cambio di approccio al clima, gli aspetti di percezione e sensibilità appaiono fondamentali quanto gli aspetti tecnologici ed economici, perché i cittadini sono chiamati ora ad agire sia direttamente sia politicamente, accettando variazioni significative nei propri stili di vita (ancorché generalmente vantaggiose) e la logica della priorità del bene comune sul personale. In sostanza, ora che il problema climatico è percepito, si deve lavorare ancora molto affinché le soluzioni non ingenerino resistenze e le eventuali ripercussioni negative non ricadano sulle fasce deboli della popolazione. Fondamentalmente, la transizione energetica è anche una questione culturale, tra corretta comunicazione, formazione e partecipazione. E non abbiamo molto tempo.