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Gambia, un nuovo tentativo per superare lo stallo

A distanza di oltre un mese dalle elezioni che si sono tenute in Gambia all’inizio di dicembre, il presidente in carica, Yahya Jammeh, non sembra avere alcuna intenzione di cedere il potere. Pochi giorni dopo il voto, che aveva premiato a sorpresa l’imprenditore Adama Barrow, il candidato dell’opposizione, Jammeh aveva riconosciuto la sconfitta e aveva annunciato che avrebbe aiutato il presidente eletto nella fase di passaggio del potere, salvo poi cambiare idea pochi giorni dopo.

Da allora non ci sono stati significativi passi avanti, e per provare a sbloccare la situazione, nella giornata di domani la Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Cedeao per i francofoni, Ecowas per gli anglofoni) avvierà una nuova missione a Banjul, la capitale del Gambia, per «convincere Jammeh a cedere il potere».

Tra gli emissari figurano tre importanti figure politiche dell’area: il presidente nigeriano Muhammadu Buhari, la presidente liberiana Ellen Johnson Sirleaf e l’ex capo di stato del Ghana John Dramani Mahama, ovvero le stesse persone che lo scorso 13 dicembre avevano tentato di convincere Jammeh, al potere dal 1994, a rispettare l’esito del voto, lasciando quindi il proprio posto a Barrow alla conclusione del suo mandato, il 19 gennaio.

Secondo il ministro degli Esteri nigeriano, Geoffrey Onyeama, che ha gestito la costituzione di questa commissione, i diplomatici adranno a «discutere con il presidente Jammeh dell’imperativo di rispettare la Costituzione». La Cedeao si augura che la transizione sia pacifica, ma secondo Onyeama non si può escludere un intervento militare nel caso di ulteriori rallentamenti. «Tutte le opzioni – spiega infatti il ministro degli Esteri – sono sul tavolo». A complicare la situazione, le dichiarazioni del presidente Jammeh del 31 dicembre, quando aveva accusato la Cedeao di parzialità, escludendo qualsiasi ulteriore negoziazione.

Nella stessa occasione, Jammeh ha spiegato a più riprese che il suo rifiuto non è legato alla volontà di conservare il potere, ma al desiderio che la Corte suprema esamini il ricorso presentato dal suo partito contro i risultati delle elezioni dello scorso 1 dicembre. «Fino a quando la Corte non esaminerà il ricorso – aveva spiegato – vi assicuro che non cederò il posto».

I rapporti diplomatici sono sempre più tesi, e nella giornata di ieri il presidente del Gambia ha richiamato e esonerato dalle loro funzioni dodici ambasciatori che avevano sottoscritto un appello affinché venisse rispettato l’esito del voto di dicembre. Tra questi spiccano l’ambasciatore del Gambia in Senegal, l’unico vicino terrestre del Paese, e quelli in Russia, Gran Bretagna, Stati Uniti e in sede Onu, considerati vicini a Barrow e quindi pericolosi per la stabilità del Paese.

Intanto, oggi dovrebbe aprirsi la prima seduta della Corte suprema dedicata proprio al ricorso sulle elezioni. Gran parte delle speranze di un passo in avanti nel difficile percorso verso la democrazia in Gambia passano proprio da qui.

Un caso non isolato

Il Gambia non è l’unico Paese della Cedeao/Ecowas a vivere un periodo di incertezza politica: 1.500 km a sudest, è la Costa d’Avorio a preoccupare. Nella notte tra giovedì 5 e venerdì 6 gennaio, infatti, alcuni membri dissidenti delle Forze repubblicane di quella che è la maggiore economia dell’Africa occidentale hanno attaccato due caserme di polizia a Bouaké, la seconda città del Paese, capitale della ribellione guidata nel 2011 dall’attuale presidente Alassane Ouattara durante la guerra civile, e hanno preso il controllo della città nel giro di poche ore.

Anche se la situazione sembra essere tornata alla normalità con l’accordo tra il governo e rivoltosi arrivato sabato 7 e messo in pratica a partire da domenica 8, e anche se la ribellione non aveva l’obiettivo di un cambio di guida politica, la sensazione è che il governo guidato da Ouattara sia troppo debole per reggere a lungo.

L’origine della rivolta dei militari va cercata in una questione apparentemente marginale, ma di grande rilievo se guardata dalla prospettiva dei soldati: gli ex ribelli, infatti, reclamano un premio per il sostegno dato a Ouattara durante la guerra civile che ammonta a circa 8.000 euro ciascuno, che moltiplicato per 8.000 membri delle forze repubblicane porta la cifra a circa 64 milioni di euro.

La debolezza del governo guidato da Ouattara è stata evidente venerdì, quando nessun corpo delle Forze armate è intervenuto per fermare la rivolta. Secondo alcuni osservatori la decisione di non coinvolgere i militari nella gestione della crisi è in realtà frutto della volontà di evitare a ogni costo l’uso della forza, ma non è da escludere che la scelta sia stata compiuta perché lo Stato Maggiore dell’esercito non è sicuro di possedere il controllo dei soldati, reclutati in gran parte tra gli ex ribelli disarmati dopo l’insediamento di Ouattara.

A distanza di due giorni dalla fine della rivolta il presidente Ouattara ha deciso di deporre il capo di Stato Maggiore, il Comandante superiore della Gendarmerie e il direttore generale della polizia, considerati incapaci di mantenere l’ordine e di garantire la fedeltà dei soldati. La preoccupazione, espressa in particolare dal governo francese, è che la stabilità della Costa d’Avorio non possa più essere garantita, mettendo a dura prova i rapporti economici europei nell’area.

Immagine: By Ikiwaner – Own work (eigenes Bild), CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=3839077