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Giosuè alla rovescia

Musica nei lager. Un ossimoro di fronte al buio della notte più nera dell’umanità. Invece le sette note furono uno straordinario strumento di ribellione, collante di genti sconosciute costrette nel medesimo tragico spazio. Artisti noti e meno noti, amatori e grandi maestri hanno dunque cercato di utilizzare qualsiasi supporto e qualsiasi espediente per comporre, nel tentativo di mantenere accesa la luce della speranza.

«Il deportato o l’internato non canta il campo, non è il vate del campo. Il campo il musicista lo vuole rivoltare come un guanto, lo vuole esorcizzare. Sorta di Giosuè alla rovescia, distrugge le mura da dentro e non da fuori, e in un certo senso ci è riuscito.  Non si è salvato la vita di nessuno suonando ma le ideologie vengono in qualche modo annichilite quando una persona riesce a far musica. Le disposizioni delle guardie che chiedono di non scrivere o fare musica nei campi vengono sempre disattese, e le autorità non possono che prendere atto di questa esplosione creativa, non possono impedirlo, a un certo punto in qualche modo la agevolano pure, comprano strumenti, assistono ai canti. Diverse testimonianze di ebrei raccontano che a Birchenau dopo l’ora della sirena di cessata attività i rom suonano fino a notte fonda: questi canti meravigliosi si diffondono ovunque e le stesse SS non possono far nulla se non ascoltare. Forse non c’è immagine più futuristica, più rivoluzionaria di questo sentire il canto bellissimo dei rom nel buio di un campo di sterminio. Potenza della musica: laddove non può salvare una vita è stata capace di rendere un luogo apocalittico un luogo in cui può vincere l’ingegno. Il reich non aveva previsto che la musica può consegnare al mondo testamenti  provenienti da luoghi impensabili»

Il maestro Francesco Lotoro ha 55 anni e da 30 esatti la sua vita ha una missione. A partire dal 1989 ha intrapreso un progetto di archiviazione, esecuzione, registrazione discografica e promozione dell’intera produzione musicale nei Campi di prigionia, internamento, transito, concentramento, sterminio, lavori forzati, Gulag aperti dal 1933 al 1953 in ogni angolo del pianeta. Musica creata da musicisti uccisi o sopravvissuti provenienti da qualsiasi contesto nazionale, sociale e religioso e che subirono discriminazioni, persecuzioni, ingiusta detenzione o deportazione.

«Ho scelto come momento iniziale l’apertura del primo campo, a Dachau nel 1933 e ho ritenuto di non potermi fermare al 1945. Nel ‘45 finisce la guerra ma la geopolitica non si ferma con l’armistizio, tecnicamente continua con gli spostamenti biblici di milioni di persone, soprattutto in Europa orientale che viene completamente ridisegnata nei suoi confini, con l’avvento delle forze socialiste: tutto ciò è ancora esito della guerra. Mi fermo al 1953, alla morte di Stalin, con la graduale amnistia dei deportati civili e militari ancora legati alla seconda guerra mondiale». Una produzione musicale, quella nei campi di concentramento, sterminata. Dal motivetto canzonatorio alle grandi opere, la musica diventa incredibile simbolo di attaccamento alla vita. La ricerca del maestro Lotoro lo ha al momento condotto a recuperare 8.000 opere musicali e 12.000 documenti inerenti la letteratura musicale concentrazionaria, della quale è unanimemente considerato la massima autorità. Con sua moglie Grazia Tiritiello ha fondato l’Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria, oggi Fondazione con sede in Barletta. È autore nonché interprete in qualità di pianista, organista e direttore d’orchestra dell’Enciclopedia in 24 CD–volumi KZ Musik (Musikstrasse – ILMC) contenente 407 opere scritte in cattività civile e militare durante la 2a Guerra Mondiale.

«Non solo ebrei, ma cristiani, sufi, romanés, e qualsiasi altro gruppo: una produzione gigantesca di cui si ignorano ancora oggi alcuni veri e propri gioielli e il grande valore complessivo. Si tratta di musica tutta creata in un momento di costrizione, sempre su supporti di fortuna quali fogli, nel fondo delle gamelle, sui filari dei campi di patate, ovunque la fantasia li portasse».

Nascono così opere, sinfonie, come l’opera in 5 atti “I 3 Capelli del vecchio Saggio” scritta da Rudolf Karel nella prigione militare di Pankràc su fogli di carta igienica incollati tra loro o gli oltre cento pezzi, arie, sonate scritte fra Auschwitz e Buchenwald da Jozef Kropinski, e tante tante altre.

La musica come mezzo trasversale che unisce classi e persone.

«Trasversale, ma anche universale, potremmo inventarci una nuova parola: transuniversale. Le normali separazioni della vita sociale di ogni giorno scompaiono nella costrizione del campo di concentramento; laddove la contaminazione in altri contesti potrebbe essere complicata qui è un pregio, un arricchimento.

C’è il violinista ebreo a Dachau che si mette a disposizione di vescovi e sacerdoti cattolici imprigionati nel campo che devono ordinare sacerdote Karl Leisner, che era diacono e diventerà beato per la chiesa cattolica: l’ebreo suona il violino forte per non far sentire ai kapo i canti e la liturgia. Il quacchero britannico William Hisley nel campo di internamento di Kreuzburg scrive una messa per i detenuti cattolici che vogliono festeggiare il natale del 1943 e così nasce la Missa in festo Nativitatis, una delle più belle della liturgia cattolica. Jean-Paul Sartre, ateo, nel campo di Treviri scrive una bellissima poesia per la festività cristiana dell’8 dicembre per  i detenuti cattolici. Non si può non parlare di Sachsenhausen: gli ebrei di quel campo, presagendo una peggior sorte, affidano i loro canti al cervello del detenuto cattolico Aleksander Kulisiewicz, pioniere della musica concentrazionaria. Dotato di una memoria fenomenale, questo studente di legge polacco imparò canti e musiche perché non si disperdessero. Molti pensavano fosse impazzito perché cantava tutto il giorno, ma in realtà stava ripetendo quanto a lui affidato. Dopo la guerra iniziò a trascrivere questo patrimonio e in questo modo vennero raccolte 764 canzoni, un’enormità».

Siamo alla vigilia del 27 gennaio, e bisogna tentare con tutte le forze di sfuggire il rischio di farne una vuota cerimonia rituale.

«Troppo spesso c’è improvvisazione, si decide che si deve per forza fare qualcosa perché arriva la data fatidica. Spero con tutto il cuore che col tempo non si crei una sorta di ritualità laica, perché il 27 gennaio deve essere altro, un momento che deve sfuggire alla retorica. Non si farà mai retorica se si parla di cosa è accaduto in quegli anni. L’ebreo si ricorda bene che pratica un credo che si fonda sulla parola Zachor (ricorda) che coincide con Shamor (custodisci, osserva): non si può ricordare senza custodire la memoria, spero questo sentimento diventi patrimoni di tutti.

Il 27 gennaio 1945 è il giorno in cui le truppe sovietiche giunsero ai cancelli di Auschwitz rivelando al mondo l’orrore dei campi di sterminio. Il 27 gennaio 1945 era però anche shabbath, in particolare nelle sinagoghe si leggeva la Parashah di Beshalach, la parte della Torah che ricorda quando popolo ebraico fu liberato dall’ Egitto. Per il popolo ebraico non esiste la coincidenza e Auschwitz, simbolo di tutto quell’orrore è stata liberata il giorno in cui si ricorda la liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù d’Egitto, non può essere un caso».

La celebre cantante e artista tedesca Ute Lemper (alla quale abbiamo rivolto alcune domande) sarà in Italia i prossimi 31 gennaio e 1° febbraio, a Torino e a Cuneo, proprio per interpretare alcune delle canzoni riscoperte dal maestro Lotoro: «Questa collaborazione nacque dopo un concerto che tenni a Roma per presidenza consiglio ministri 2015 “Tutto quello che mi resta”. Poco dopo mi fu proposto dall’ organizzazione che supportava le mie ricerche se volessi collaborare con Ute Lemper ed è nato questo progetto. che ha prodotto 6 concerti, 4 a New York, e 2 a Mantova, poi ognuno ha preso la sua strada, fu un momento di condivisione piacevole».

Foto: manoscritto musicale prodotto a Buchenwald