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Migranti in Europa: più forti delle paure

«Sei un migrante». Nelle scuole e nelle strade di Budapest è uno degli insulti che vanno per la maggiore fra gli sfottò delle nuovissime generazioni, cresciute a pane e discorsi autoritari, di polso come si suol dire. Lo straniero, l’altro da noi, torna a essere un pericolo, da isolare e respingere. L’Europa continentale fatica terribilmente a offrire una risposta concreta e credibile al dramma di centinaia di migliaia di persone, divisa fra veti, timori, calcoli politici, mentre ogni istante può essere decisivo per salvare un vita.

In questo contesto un elevato numero di chiese protestanti europee, 14, e fra queste anche la Chiesa valdese e metodista, rappresentata dal pastore Francesco Sciotto, insieme alle principali organizzazioni protestanti coinvolte nell’accoglienza dei profughi (Ccme – Churches’ Commission for migrants in Europe –, Cec – Consiglio ecumenico delle chiese, e Wcrc (Comunione mondiale di chiese riformate e altre ancora), si sono riunite nella capitale ungherese per una due giorni di riflessioni e analisi sulle migliori azioni da mettere in atto per tentare di offrire il proprio contributo a una crisi umanitaria che appare senza limiti. Al termine dell’assise è stata creata una task-force in cui verranno rappresentate le varie Chiese aderenti allo scopo di stimolare la creazione di una sensibilità e di un approccio comune alla questione. Una voce unica, più forte di tante singole, capace anche di divenire interlocutrice e ispiratrice di buone pratiche.

Non appare una missione semplice. Sono emersi nel corso dei lavori e delle successive dichiarazioni rese alla stampa differenti punti di vista e approcci, e trovare una sintesi sarà esercizio impegnativo.

Insegnare all’Occidente a non avere paura dello straniero, o accogliere lo straniero per aiutarlo a superare le proprie di paure? Fondarsi sulle presunte radici cristiane europee come un obiettivo grandangolare con cui valutare gli altri, o concepire questo nostro tempo come quello del dialogo e del confronto, spendendo un poco di attenzione anche per ascoltare chi abbiamo davanti a noi?

Le Chiese dell’Europa orientale, ancora alle prese con la lenta fase post-sovietica di ricostruzione, paiono arroccate su posizioni difensive, preoccupate soprattutto di agire, in casa, al fine di creare nuove generazioni capaci di superare l’odio che nasce dalla paura. Non a caso il vescovo István Szabò, dal 2015 al vertice della Hrc, la Hungarian Reformed Church, che aggrega tutte le chiese ungheresi fra Carpazi e Danubio (le minoranze presenti in Slovacchia, Ucraina, Romania, Serbia, Croazia e Slovenia oltre alla Chiesa riformata ungherese), ha più volte voluto sottolineare «la necessità di attuare un’integrazione senza cedimenti di campo. Significa avere chiaro in mente che l’Europa si fonda su radici cristiane e sui valori connessi, quali l’amore per il prossimo, la responsabilità, l’accoglienza. Se non parliamo di queste basi, lo farà qualcun’altro al posto nostro». E se Alena Fendychová, della Chiesa evangelica della Repubblica Ceca, ha raccontato di come gli appena mille profughi accolti nel Paese siano diventati un caso capace di sollevare i peggiori istinti razzisti fra mezzi di comunicazione e classe politica, capiamo che di strada da fare ce ne è ancora molta.

Di contro le chiese tedesche, renane in particolare, con i propri massimi rappresentanti hanno insistito su altri aspetti, quali la necessità imprescindibile di entrare in dialogo reale con i nostri nuovi interlocutori, ascoltando le loro vicende e rispettando le loro credenze. «Non c’è alcun rischio di islamizzazione dell’Europa – ha voluto sottolineare Manfred Rekowski, moderatore della Chiesa della Renania – e per questo non dobbiamo avere timori, ma vivere l’accoglienza come un momento di crescita per tutti».

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La Chiesa riformata ungherese dalla scorsa estate ha sostanzialmente bloccato ogni intervento nei confronti dei profughi e dei migranti, dietro pressante invito al disimpegno da parte del governo centrale guidato da Viktor Orbán, che con il suo partito di destra Fidesz, guida il Paese più o meno ininterrottamente da una quindicina di anni. Un segnale della profonda e pericolosa commistione che a queste latitudini caratterizza ogni aspetto della vita religiosa, se è vero che solo lo scorso anno il Governo ha finanziato la ristrutturazione o la costruzione ex novo di ben 119 chiese, equamente divise fra riformate e cattoliche, oltre a gestire buona parte dei fondi destinati alle attività delle varie confessioni, elargendoli con il contagocce, con tempi assai lunghi e indirizzando le linee di intervento. Da qui la prudenza delle dichiarazioni dei vertici delle Chiese magiare, timide nel far pervenire critiche a una classe politica che pare sempre più conservatrice e autoritaria.

Orbán ha riportato l’Ungheria sulle prime pagine dei giornali di mezzo mondo con dichiarazioni e azioni che hanno fortemente preoccupato i leader europei. Fra tutte spicca la decisione di costruire una serie di muri: lo scorso anno sul confine serbo, ora su quello croato e a breve su quello rumeno, per bloccare le marce disperate di decine di migliaia di donne e uomini, nell’illusione di un isolamento volto a salvaguardare la natura cristiana della grande nazione ungherese. A Fidesz si affianca Jobbik, movimento politico divenuto in pochi anni la terza forza del Paese a suon di slogan razzisti e antisemiti, con toni che in Europa non si sentivano probabilmente da molto tempo. Non sono pochi i pastori della Chiesa riformata di Ungheria a simpatizzare apertamente per quest’ultimo schieramento; alcuni ministri di culto ne hanno la tessera in tasca, mentre un pastore riformato, Zoltan Bàlog di Fidesz, è l’attuale ministro per le risorse umane del terzo governo Orbán.

Da Doris Peschke, segretaria esecutiva della Ccme, è arrivato un appello «perché queste riunioni non rimangano ottimi esercizi verbali, ma siano capaci di dare nuova forza a chi ogni giorno deve affrontare il dramma di tante persone che bussano alle nostre porte». Anche Làszló Gonda, professore di teologia presso l’Università teologica riformata di Debrecen, ha insistito, nel suo apprezzato discorso fondato sui testi classici, dal Levitico («Ama il tuo prossimo come te stesso») alla Genesi («Ogni uomo è creato a immagine di Dio», dall’Esodo fino al Vangelo di Matteo, sull’importanza del venirsi incontro («Fui straniero e mi accoglieste») e di offrire conforto al forestiero.

Da molti dei presenti è giunto l’invito a fare presto, a dare forma concreta agli slogan, perché stiamo continuando a piangere troppe vittime ogni giorno e l’emergenza pare senza fine. Non a caso sinceri apprezzamenti sono stati pronunciati nei confronti del progetto dei corridoi umanitari promosso da Tavola valdese e comunità di Sant’Egidio, indicati quali prova concreta di che cosa sia possibile fare in questo ambito. È stato proprio il pastore Sciotto a emozionare la platea, esortando tutti noi a superare la paura dello straniero, e a cercare piuttosto di alleviare quelle di chi sta soffrendo per le guerre, le violenze, la fame. Il prossimo incontro della nascitura task-force avrà luogo in estate in Grecia, altro snodo chiave delle rotte dei migranti, dove una piccolissima ma incredibilmente attiva Chiesa evangelica sta spendendo ogni energia per lenire le sofferenze delle moltitudini che dall’Ellade passano, alla ricerca di pace e fortuna altrove.

Molti buoni auspici quindi, molta voglia di fare rete, almeno sulla carta. Nella speranza che le contraddizioni di cui abbiamo ragionato sopra non prevalgano. Chiese che chiudono i propri servizi nei confronti di chi ha bisogno sono un pessimo segnale, e la scelta di Budapest quale luogo per dare il via ufficiale a queste nuove collaborazioni non pare casuale. Con l’auspicio che possa servire da stimolo per superare paure e reticenze che poco hanno a che fare con il messaggio cristiano.