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Radicalizzazione: prevenire è meglio

Parlando di prevenzione e contrasto alla radicalizzazione violenta, l’attenzione alla dimensione locale è fondamentale per affrontare l’argomento. Il 10 aprile a Torino ci sarà una conferenza proprio su questo tema intitolata “Un approccio regionale alla prevenzione della radicalizzazione” per fare il punto sulla situazione nel nostro paese e nel quadro europeo. Abbiamo cercato di capire la complessità di questo tema con Viviana Premazzi, ricercatrice dell’Università degli studi di Torino e del Forum Internazionale ed Europeo di Ricerche sull’Immigrazione, che ha ideato e organizzato l’evento insieme a Luca Guglielminetti.

Come si parla di prevenzione in rapporto alla radicalizzazione?

«In realtà il tema della radicalizzazione è stato affrontato dall’11 settembre 2001 in poi prevalentemente da un punto di vista securitario e di intelligence, ma contemporaneamente sono state realizzate una serie di analisi sulle biografie dei terroristi per cercare di capirne i profili e di capire quali potevano essere le cause, molteplici, che portano a questi comportamenti. A questo punto subentra l’idea di politiche di prevenzione, che è stata poi esplicitata a livello internazionale da un summit alla Casa Bianca nel febbraio del 2015 e che riguarda tutta l’attività del Radicalisation Awareness Network della Commissione Europea che è stato creato nel 2011 e che ruota su tre grandi pilastri: creare consapevolezza sui processi e meccanismi che portano al reclutamento, il contrasto alle narrazioni estremiste e alla propaganda (quando si parla di radicalizzazione siamo abituati a pensare all’estremismo jihadista, ma si parla anche di forme di neonazismo o xenofobia) promuovendo delle contronarrative e poi coinvolgere le comunità locali a tutti i livelli».

Quali sono i luoghi della radicalizzazione?

«Il carcere di sicuro lo è, però c’è da dire che in questa ultima fase storica, molti si radicalizzano da soli attraverso la rete o con percorsi personali e dunque sono difficilmente più intercettabili, anche se spesso successivamente cercano un appoggio nei propri gruppi. Diventa dunque fondamentale una condivisione di consapevolezza, di responsabilità, che dica quali segnali cogliere e in che forma. Dalla famiglia alla moschea, alla scuola o agli altri luoghi di frequentazione. Ora c’è un grande contrasto a questi percorsi online che richiedono un’integrazione con ciò che avviene offline. Abbiamo avuto un cambiamento di luoghi, se tra la fine degli anni 90 e l’inizio degli anni 2000 le moschee potevano raccogliere qualche messaggio particolarmente radicale, oggi sappiamo che c’è un altro mondo che si muove online e a livello individuale».

Reti locali, di che cosa parliamo e perché sono importanti?

«La decisione di svolgere questa conferenza nasce da una serie di iniziative che sono state prese dal Governo italiano nell’ultimo periodo: la Commissione di studio sulla radicalizzazione e sull’estremismo jihadista che a inizio gennaio ha presentato i primi risultati del suo studio e parallelamente la proposta di legge Dambruoso-Manciulli sulla prevenzione di questi fenomeni. All’incontro presenteremo entrambi questi documenti visto che entrambi fanno riferimento a una dimensione non tanto nazionale ma più a livello locale. L’idea sottesa a entrambi e avere dei centri regionali che possano coordinare l’azione a un livello ancora più locale coinvolgendo dalla scuola alle comunità islamiche e i soggetti con cui si decide di lavorare come esperti o giornalisti per cercare di coprire il più possibile quegli ambiti che possono contrastare l’estremismo e lavorare per la prevenzione».

A proposito di narrazione: quella mediatica che ruolo ha?

«Torino e il Piemonte sono da sempre laboratorio di proposte e progetti interessanti: su questo tema presenteremo infatti un progetto del Politecnico di Torino sullo sviluppo delle contronarrative: queste possono avere forme diverse, dal coinvolgimento di exradicalizzati a cercare di presentare un messaggio che possa contrastare tutta la fascinazione svolta dallo Stato Islamico, che sia un messaggio che possa dare senso a chi è in ricerca. Le cause di radicalizzazione infatti sono molte, non è detto che sia solo la discriminazione, la povertà o l’incontro di reti criminali, ma anche una domanda di senso: ecco che allora la contronarrazione deve rispondere a tutte queste cause. Dall’altro lato la formazione e il lavoro insieme ai giornalisti per cercare di presentare i fatti nel modo più corretto senza fare il gioco dei terroristi nel creare paura o fascino nel messaggio trasmesso, ma cercando di decostruire tutto questo».

L’incontro sarà il 10 aprile: perché Torino?

«A Torino era già partito un tavolo a livello comunale proprio su questi temi che ora si sta cercando di riattivare tra legalità, prevenzione e radicalizzazione. C’è un progetto attivo in collaborazione con la Comunità Religiosa Islamica Italiana e altre organizzazioni per quanto riguarda le carceri, e molto altri. Abbiamo voluto partire con questi relatori per fare il punto con gli esperti sul livello della discussione, presentare le buone pratiche del territorio, e poi lasciare la parola alle istituzioni che saranno chiamate a implementare la strategia locale. È la prima tappa di un percorso che vogliamo cominciare e che speriamo altre regioni seguano. Cercheremo di produrre un documento che riassuma gli atti del convegno in una serie di impegni presi e poi provare a ritrovarsi tra 6 mesi o un anno e capire a che punto siamo».

Immagine: Di © Citron /, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=45026792