villagers_scour_rubble_for_belongings_scattered_during_the_bombing_of_hajar_aukaish_-_yemen_-_in_april_2015

Yemen, cronache di una pace lontana

Mentre in Italia sembra aver finalmente raggiunto un nuovo livello il dibattito su produzione, vendita e invio di materiale bellico nella Penisola arabica, materiale usato contro i civili nella guerra in Yemen, nel Paese si continua a vivere in uno stato di guerra permanente. Un altro anno è passato, un altro Eid al-Fitr è trascorso e sono davvero pochi i segni di progresso verso una soluzione politica.

Il mese di maggio sembrava tuttavia aver portato qualche segnale di speranza, espresso dall’inviato speciale delle Nazioni Unite per lo Yemen, Martin Griffiths, lo scorso 13 maggio di fronte al Consiglio di Sicurezza Onu a New York. «Sono lieto di riferire al Consiglio sui progressi nell’attuazione dell’accordo relativo a Hodeidah», aveva dichiarato. Il riferimento è all’accordo di Stoccolma, firmato lo scorso 13 dicembre nella capitale svedese da parte di tutti i belligeranti. Per arrivare a quel punto, Griffiths si era recato personalmente a Sana’a, viaggiando insieme ai delegati dei ribelli Houthi per rassicurarli ed evitare un nuovo fallimento dopo quello del mancato appuntamento di Ginevra di pochi mesi prima. All’epoca, ormai oltre sei mesi fa, il nodo decisivo era il porto di Hodeidah, in mano ai ribelli e attraverso il quale passa gran parte degli aiuti umanitari e dei rifornimenti destinati ai milioni di yemeniti in costante condizione di bisogno. Senza l’accordo, i tempi sembravano maturi per un nuovo assedio da parte delle forze della coalizione guidata dall’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti, che avrebbero conquistato o distrutto la città imponendo a milioni di civili le conseguenze della loro azione.

Fino allo scorso 11 maggio, nessun progresso era stato compiuto in quella direzione. Il ritiro degli Houthi, cominciato quel giorno, non è però una condizione sufficiente per immaginare la transizione politica. «Ci sono anche segnali allarmanti della guerra, e la guerra ha l’abitudine di battere la pace», aveva infatti aggiunto Griffiths subito dopo aver riferito a proposito dei progressi. I “segnali allarmanti” sono soprattutto relativi al crescente uso di droni militari da parte di tutte le forze in conflitto, e in particolare da parte degli Houthi, che il mese scorso hanno colpito due stazioni di pompaggio sull’oleodotto est-ovest che trasporta greggio dai giacimenti petroliferi sauditi al Mar Rosso, attacchi che hanno causato la morte di numerosi civili, compresi minori.

Gerald Feierstein, ricercatore del Middle East Institute di Washington, afferma però che «quell’attacco è scollegato dal conflitto all’interno dello Yemen» e che «è legato alle crescenti tensioni tra l’Iran, gli Stati Uniti e i partner del Golfo». Tuttavia, questa visione è rifiutata dagli stessi protagonisti. Lo scorso 17 maggio Mohammed Ali al-Houthi, presidente del Comitato rivoluzionario supremo dello Yemen, aveva ribadito che «non siamo agenti dell’Iran» e che «siamo in grado di prendere questa decisione da soli: se la coalizione guidata dai sauditi fermerà la loro aggressione e l’assedio, fermeremo i nostri missili e i nostri droni». Lasciando per un momento le parti in guerra e muovendosi sul terreno, queste contrapposizioni geopolitiche sembrano del tutto irrilevanti: Afrah Nasser, giornalista yemenita che gestisce il sito web Sana’a Review, racconta che la maggior parte degli yemeniti è troppo occupata con la sopravvivenza quotidiana per preoccuparsi delle politiche regionali. «Né i sauditi né gli iraniani sono nostri amici», racconta. «A nessuno importa delle nostre vite e di tutto ciò che stiamo vivendo».

Dello stesso parere è anche Hisham al-Omeisy, che ha seguito la guerra nello Yemen fino a quando non è stato imprigionato e torturato dagli Houthi nel 2017. Ora vive al Cairo, ma rimane profondamente preoccupato per il futuro del suo paese. «Le infrastrutture sono state devastate. Il governo yemenita e i donatori devono iniziare a pensare a soluzioni a lungo termine che abbiano un impatto diretto sui mezzi di sussistenza: riabilitare le infrastrutture, ripristinare sistemi, perfezionare politiche, governance, tasse, pagare salari. Abbiamo bisogno di un governo centrale forte e soluzioni sostenibili, non solo un guscio debole in cui il paese diventa eccessivamente dipendente da aiuti esteri che sono al meglio stagionali e sempre inferiori ai bisogni locali». Questa invisibilità, a oltre quattro anni dallo scoppio del conflitto, continua a contribuire a quella che più volte è stata definita la peggior crisi umanitaria al mondo. Da quando è iniziata la guerra nel marzo del 2015, i combattimenti hanno ucciso decine di migliaia di civili, hanno permesso al colera di diffondersi nella maggior parte delle regioni del paese e causato un collasso economico che rende le famiglie così povere da non potersi permettere neppure di comprare abbastanza cibo per la famiglia. Come se non bastasse, nella giornata di mercoledì 5 giugno il conflitto sembra essersi ancora una volta riscaldato: i ribelli Houthi, infatti, hanno annunciato di aver attraversato il confine con l’Arabia Saudita, di aver assunto il controllo di oltre 20 posizioni sul terreno e di aver ucciso o ferito oltre 200 membri del personale affiliato alla coalizione militare saudita. L’azione, per ora, non è stata confermata dai sauditi, ma è facile immaginare una reazione militare nelle prossime ore.

Ancora una volta, la pace in Yemen somiglia all’orizzonte: non importa quanti passi si facciano in direzione di una soluzione negoziata, perché le armi la allontaneranno sempre di più.